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I Sassi di Matera

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lunedì 29 aprile 2019

Storia e leggenda della Gioconda Lucana



Il Viaggio di Monna Lisa del Giocondo 
finisce in Lucania?


La Prima pagina

L'Articolo


LA TOMBA LUCANA DI MONNA LISA 
LEGGENDA O REALTA’?


Secondo una leggenda Lagonegro sarebbe stata l' ultima dimora della modella di Leonardo. Nel Paesino Lucano, sarebbe stata sepolta Lisa del Giocondo, la celebre Monna Lisa dipinta da Leonardo da Vinci e sarebbe morta a Lagonegro nel 1506. Si raggiunge poi la parte antica dell'abitato salendo la gradinata che nel 1603 sostituì il vecchio ponte levatoio. Attraverso la Porta di ferro si arriva alla zona panoramica dei ruderi del Castello. Qui sorge l'antica cattedrale, la medievale San Nicola con opere lignee all'interno, la quale, secondo la leggenda, ospiterebbe la tomba di Lisa del Giocondo, la famosa Monna Lisa di Leonardo da Vinci. il Castello, accanto al quale è possibile visitare anche la bella Chiesa di S. Nicola, del IX-X, riccamente adornata al suo interno da un meraviglioso apparato decorativo composto di numerose opere tra le quali si ricordano una Vergine con S. Giovanni e un Crocefisso di Altobello Persio, una tela con Madonna e sante di Azzolino, e un magnifico altare maggiore risalente al ‘700. Secondo la leggenda, proprio in questa chiesa sarebbe stata sepolta Lisa del Giocondo, la celebre Monna Lisa dipinta da Leonardo da Vinci. A Lagonegro, in Basilicata, nord di Maratea e ad ovest di Lauria, sta forse per essere svelato il segreto della vita della Gioconda ritratta, la cinquecentesca dama fiorentina dall’”enigmatico sorriso”, come dice il Vasari, Lisa Gherardini alias Monna Lisa “mulier ingenua” del ricco mercante setaiolo fiorentino Francesco del Giocondo (da cui l’appellativo leonardesco di Gioconda”). Figlia dell’altrettanto facoltoso notaio Noldo Gherardini, era nata nel 1479 in via Maggio di Firenze dove visse fino al 1501-1503, anni nei quali anche Leonardo abitava in Santissima Annunziata (dove vi era la cappella di famiglia della nobildonna e dove essa andava sovente a pregare ) per poi trasferirsi nei possedimenti tra Greve e Castellina in Chianti. Pochi anni dopo, nel 1506, mentre era di rientro verso Firenze da un viaggio di affari nel Sud Italia assieme a Ser Francesco ebbe un gravissimo malore lungo la via Popilia che congiungeva Calabria, Lucania e Campania, nei pressi di Lagonegro , così grave che morì e qui venne sepolta. Le mai interrotte ricerche si stanno adesso spostando dal cimitero del castello all’interno dell’antica chiesa di San Nicola seguendo l’ipotesi che trattandosi di nobildonna era d’uso collocarne la tomba in luogo sacro anziché santificato. Greve in Chianti per gli anni della sua breve vita e Lagonegro per la sua immatura fine vedono confermato il legame con la nobildonna fiorentina che ispirò il capolavoro di Leonardo da Vinci in quel quadro,che il genio da Vinci si portò con sè in Francia dove il re Francesco I lo volle acquisire nel 1518 tra le opere della Corona fino a quando, secoli dopo, nel 1792 fu affidato al Louvre. Nel 1800 Napoleone lo volle nella propria camera da letto alle Tuileries, nel 1911 fu rocambolescamente trafugato dal Louvre ad opera di un muratore italiano che per due anni tenne nascosta l’opera a Firenze. Dal 1940 al 1945, per impedire che venisse trafugato dai nazisti, il quadro venne nascosto di anno in anno in cinque castelli diversi. Diventato un’immagine universale, la Gioconda attrae ogni giorno nella Salle des Etats al Louvre ben 20.000 visitatori ammaliati da quel sorriso enigmatico, da questa figura che nel Novecento è diventata perfino un’icona pubblicitaria e da quest’anno protagonista del romanzo esoterico che la interpreta come un autoritratto al femminile dello stesso Leonardo in “drag queen” suscitando polemiche fantasiose legato all’enigma sulle origini del dipinto. “La Gioconda , risponde Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale di Leonardo a Vinci, tra Montecatini Terme e Firenze, non è un’opera incompiuta ma un’opera infinita nel senso di pittura infinita che Leonardo vuol dare alle sue cose : è un ritratto dell’idea di pittura di Leonardo di quel suo andare anche al di là del visibile”.

LA TOMBA DI MONNA LISA A FIRENZE 
O IN LUCANIA?

Un presunto autoritratto di Leonardo da Vinci e' custodito a Vaglio di Basilicata (Potenza). Un’antica leggenda del vicino borgo di Lagonegro secondo la quale Lisa Gherardini, dell’omonima famiglia di Montagliari (Fi), alias Monna Lisa (un diminutivo di "Madonna" che oggi avrebbe lo stesso significato di "Signora"), moglie di Francesco del Giocondo (e quindi la "Gioconda"), sarebbe morta proprio nel paesino lucano e ivi sarebbe sepolta in una tomba rimasta segreta. Una storia in cui sembra di assistere ad uno strano gioco di specchi e in cui è difficile stabilire da che parte stia la verità, considerato anche che è dubbia – se non l’esistenza storica di Lisa, a dire il vero alquanto documentata – la sua effettiva relazione col dipinto di Leonardo, relazione citata dal Vasari ma messa in dubbio da molti studiosi che considerano quel quadro nient’altro che un’immagine femminile idealizzata. Ma vediamo di ripercorrere le notizie su Lisa - quelle note e quelle leggendarie - cominciando da un ritrovamento avvenuto a Firenze nel 2007, che sembrerebbe smentire la leggenda lucana. Da una notizia del gennaio 2007 si apprende che sarebbe (il condizionale è d’obbligo) all'interno dell'ex convento di Sant' Orsola, a Firenze, la sepoltura di Monna Lisa, la modella che Leonardo Da Vinci ritrasse come La Gioconda. Il corpo di Lisa Gherardini, moglie del mercante Francesco Del Giocondo, riposerebbe all'ombra di una vecchia tomba la cui esistenza è stata ipotizzata grazie agli studi preliminari su antichi documenti svolti dal professor Giuseppe Pallanti. Un risultato che se pare aggiungere un piccolo tassello al grande mosaico della storia dell'arte, entrerebbe inevitabilmente in conflitto con la leggenda nota ai cittadini di Lagonegro, in Basilicata, secondo la quale Monna Lisa riposerebbe tra le montagne dell'Appennino lucano, in un luogo segreto, di fronte al Tirreno che in quel tratto abbraccia la Calabria e l'antica Lucania tracciandone il confine. La leggenda – ripresa anche dallo scrittore russo Dmitrij Sergeevic Merezkowskij, autore nel 1901 del romanzo "La resurrezione degli dei. Il romanzo di Leonardo da Vinci" – vuole infatti che la sepoltura della modella leonardiana si trovi in Lucania. Così recita il testo: "Monna Lisa mori per una infezione a Lagonegro. Il marito, messer Francesco del Giocondo, l'aveva lasciata nella cittadina lucana essendo dovuto andare in Calabria per affari. La morte sarebbe avvenuta nel 1506". Secondo la vulgata quindi la celebre donna fiorentina, che da recenti indagini pare abitasse in Via Ghibellina di fronte alla casa di Leonardo, si sarebbe spenta in Basilicata a seguito di una fatale malattia che le segnò tragicamente il destino. Mentre il marito, Francesco, è in Calabria per affari, la giovane Lisa avrebbe soggiornato a Lagonegro per qualche tempo affetta da una strana malattia che la condusse alla morte in pochissimo tempo. Sia chiaro che a Lagonegro tutto é dato per certo, e se per caso qualcuno si rifugia in un generico "si dice", è destinato ad essere guardato male. Senza dubbio il fatto è curioso: come giustamente fa rilevare qualcuno, la tradizione popolare può anche essere considerata leggenda, ma é improbabile che la gente del posto cinque secoli addietro si sia potuta inventare un fatto così clamoroso che si é radicato nella storia stessa della comunità. Ma é possibile, aggiunge qualcun altro, che una tradizione vecchia di secoli poggi sul niente? Non è mancato chi negli anni si è posto domande, ha consultato registri parrocchiali e documenti dell'epoca in biblioteche pubbliche e private, fra Toscana e Lucania, e c’è chi riferisce di studiosi tedeschi che agli inizi degli anni Cinquanta avrebbero effettuato sopralluoghi, vere e proprie campagne di ricerca, nella chiesa romanica di San Nicola, del decimo secolo, e nel cimitero sovrastante. Avrete insomma capito che a Lagonegro si è sviluppato un mito di tutto rispetto, dando corpo a un fantasma che sembra dominare poeticamente nell'immaginario lucano, tra le strade di Lagonegro e nelle campagne dai paesaggi lunari, che da sempre affascinano studiosi e visitatori. Intanto però, a Firenze, sono tutti convinti che sia la città sull’Arno ad ospitare il corpo della celebre modella, pur con la consapevolezza che la ricerca orientata nell’ex convento di Sant’Orsola [ma a fine 2012 non risultavano ancora identificazioni certe del presunto scheletro] non placherà l'inesauribile poesia sulla sepoltura di Monna Lisa, le cui spoglie d’ora in poi saranno contese dalle due regioni, continuando ad alimentare una leggenda che ha l’oscuro fascino del mistero. Intanto a Lagonegro il locale GAL La Cittadella del Sapere ha avviato nella primavera 2012 il progetto di realizzazione di un Museo Virtuale dedicato a Monna Lisa, segno evidente della volontà di non voler rinunciare all’affascinante leggenda che lega indirettamente il piccolo borgo lucano al genio di Leonardo.



mercoledì 24 aprile 2019

La Stauroteca simbolo della passione di Cristo


Ancora un articolo sul quotidiano 
Le Cronache Lucane


La Pagina

Il dettaglio

LA STAUROTECA
UNICA TESTIMONIANZA AL MONDO DELLA PASSIONE DI GESU’ CRISTO

Custodita e quasi dimenticata da una comunità disinteressata alla Cristianità

Purtroppo, in questo mondo fatto di interessi materiali, alimentato da messaggi futili di esigenze e necessità dettate dal capitalismo e dal consumismo, vediamo, giorno dopo giorno, perdersi l’interesse per la cristianità, ricordandola esclusivamente durante le festività, dove emergono solo quelli destinati ad alimentare i predetti scopi puerili ed inutili. Siamo nella settimana Santa, quella che ci riporta a meditare sulla Passione di Cristo, in particolare la sua crocifissione e morte, tutti possono dimenticarla, ma non la comunità di Ferrandina, che con orgoglio e devozione, è in possesso, nella Chiesa Madre Santa Maria della Croce, l’unica reliquia al Mondo di un frammento della croce di Gesù, essa fu donata da Federico D’Aragona alla Chiesa Madre di Uggiano in seguito ad un evento miracoloso, (trasportata poi nella Città di Ferrandina, fu riposta nella Chiesa Maggiore nell’anno 1495), da una carta del 29 Agosto 1521, apprendiamo che il Sindaco della Città, Nicolaus de Porfido, insieme ad altri eletti (particulares) a causa della pestilenza che ha colpito la Città, decidono in quel giorno di riunirsi nella Chiesa Madre, dove deliberano di << fare un voto con cui si obbligano donare ogni anno al Preziosissimo Legno di Santa Croce, cento libre di cera lavorata, mendas decem di olio per la lampada e quattro once di carlini d’argento. Nella Santa Visita Pastorale di Mons. Pietro Giovine, Arcivescovo di Acerenza e Matera, eseguita il 27 Giugno 1872 (Archivio Capitolare Materano) si legge che la reliquia del Santo Legno della Croce “racchiusa in una croce formata da tubi di cristallo legati in argento a forma di sfera, con piede di ottone” è priva di autentica. L’Arciprete Ruggero Lisanti in risposta afferma che “ l’autentica è fornita dall’antichità delle medesime massimo per quanto riguarda la reliquia del Santo Legno che esisteva nell’antico paese abbandonato e denominato “Uggiano”, da cui venne qui religiosamente trasportata… trovasi descritti due miracoli. Accesosi un incendio nella Chiesa ove veniva custodito il Santo Legno tutto venne divorato dalle fiamme, ad eccezione del solo Legno ove veniva conservato. Più eclatante il secondo. Movendo da Montepeloso i Saraceni assalirono il Castello di Uggiano. Dopo parecchi giorni di assedio, gli assediati non traendo altro scampo ricorsero al Sacro Legno della Croce onde essere liberati da sì terribile nemico. Ebbe luogo una processione, ed al mostrarsi del Sacro Legno i cavalli caddero ginocchioni. In vista di ciò i Saraceni tolsero l’assedio e presero la fuga. Così la leggenda. La Stauroteca è citata nei documenti d’archivio soprattutto per la sua funzione mistica e religiosa. Gli stemmi attesterebbero la donazione da parte dei Sanseverino, Conti di Tricarico e Principi di Bisignano al Re Federico D’Aragona che a sua volta volle donarla alla Chiesa Madre del villaggio feudale di Uggiano.
Per questi motivi, non è ammissibile che ci possa essere una dimenticanza o un disinteresse verso così tanta sacralità e cristianità, proprio in questo periodo, che non dovrebbe essere solo di festa profana, ma soprattutto, almeno per detta comunità, un momento di riflessione per chi ha deciso di morire da innocente, e donarsi completamente al Padre, anima e corpo, essendo custodi di una reliquia unica al Mondo.





venerdì 19 aprile 2019

Oggi ancora in prima pagina...



Altro articolo su Le Cronache Lucane

La Prima pagina


L'Articolo





Feredico d’Aragona e consorte Isabella del Balzo protagonisti nella Capitale Europea della Cultura
contro la volontà dei Ferrandinesi.

I Reali Ferrandinesi, Federico d’Aragona e consorte, Isabella del Balzo, fondatori della Città, in rappresentanza, nella Capitale Europea della Cultura, di Arte, Storia e Cultura della più degna provincia Materana, a testimonianza di una Cultura condivisa anche dall’artista Altobello Persio, insieme ai figli Giulio e Domizio, autori di sculture e dipinti presenti nelle medesime Città.
Risentiti i Ferrandinesi che pur dimostrando disinteresse per una cultura antica e preferendo la custodia anonima di testimonianze di un’Arte antica del tutto unica, come unici risultano anche il Presepe e la cappella dell’Annunziata nella Cattedrale di Matera, opere degli stessi, avrebbero voluto importare il turismo in casa propria anziché mettersi al servizio della Capitale, ignari di contribuire al primo grande approccio per la creazione di un “Tour turistico” Artistico/Storico, perché è inevitabile che la cultura storica di opere d’arti va scoperta nel luogo di origine, e non limitare la conoscenza di opere a se stanti.
Quindi Ferrandinesi rassicurati, i Reali, nella Capitale Europea della Cultura, daranno il loro contributo per la giusta promozione e conoscenza della città Aragonese, degna provincia della Capitale per Arte, Cultura e tradizioni che solo sul posto possono avere il loro giusto risalto, e questo, gli appassionati, gli intenditori e gl’intellettuali lo sanno, che per approfondire le loro conoscenze ed avere un riscontro concreto, è necessario visitare il territorio di riferimento, e non semplicemente un’opera esposta in un ambiente sterile ed insignificante.
Spero in fine che i Reali Ferrandinesi facciano valere il loro immenso valore Storico/Artistico/Culturale, e testimoniare che la Cultura di un territorio legato a origini Antiche, come il Paleolitico/Neolitico, anche il Medioevo è parte della Cultura del territorio Provinciale di una Capitale, che dovrebbe avere il giusto risalto in Europa e nel Mondo.







giovedì 18 aprile 2019

Il mio 7° Manoscritto


Castelli e Fortezze della provincia Materana
Storie e Leggende


Il Libro

INCIPIT

Normalmente, come è giusto che sia, Castelli e Fortezze, nella loro bellezza e maestosità, raccontano le loro origini e la loro Storia Antica , ma quello che non viene molto spesso raccontato agli appassionati, sono le leggende che ognuno di loro ha nel suo interno Storico, aneddoti avventuristici, a tratti arcani ed incredibili, fatti di una realtà incredibilmente evanescente che rievoca abitudini ed usi di un tempo remoto, che sembra a volte confondersi con la realtà dei giorni nostri, tutto molto suggestivo ed intrigante.
Le leggende raccontate in questo testo sono frutto di una ricerca “Certosina”, cercate e documentate durante una ricerca di Storia Antica  sui Castelli Materani, la passione e la curiosità ha fatto il resto che spero appassioni e incuriosisca anche il lettore che vorrà leggere queste righe, posso garantire che personalmente, durante la stesura del teso, la suggestione ha preso il sopravvento sulla mia persona, trascinandomi, nottetempo, in aneddoti di leggende talmente appassionanti e suggestive, da farmi vivere, naturalmente nei miei sogni notturni, sensazioni ed emozioni, trascinandomi nei vari ambienti Medioevali con un trasporto quasi voluto, desiderato, cercato spasmoticamente, nella speranza di immedesimazione e partecipazione di un tempo forse già vissuto inconsapevolmente. 

Contenuto

Questo libro raccoglie la Storia dei Castelli e delle Fortezze della Provincia Materana, una Storia fatta di Arte, Architettura Antica, e dei loro abitanti, ma quello che stupirà il lettore sono le leggende a loro legati, aneddoti curiosi di vita Medioevale a tratti fiabeschi, descrizioni di vita vissuta dell'epoca, probabili leggende che hanno segnato e originato abitudini e folclore di intere comunità, alcune hanno scritto anche la Storia Antica di una Regione umile, ma che in quell'epoca ospitava Re e Regine... la Lucania o Basilicata, che dir si voglia. L’Autore, Enzo Scasciamacchia, ha voluto fare questa raccolta dopo una ricerca certosina di Storia Antica e Leggende sparse in archivi e testi bibliotecari, fonti inestimabili di notizie legate a vecchie origini ormai dimenticate, per questo riportate alla ribalta delle memorie ormai lontane e distratte da quello che è la nostra discendenza, ma soprattutto, da chi ha costruito per noi la Storia fino ai nostri giorni. Su questo testo ogni comunità potrà attingere a notizie riguardanti le proprie origini, e conoscere la propria leggenda per definire e ricordare le tradizioni che, anche se in minima parte, ancora oggi vengono tramandate da anziani, portatori di vecchie dicerie di Paese. Tutto è contenuto in questo testo di sole 132 pagine, illustrato e documentato da immagini descrittive ed originali, in modo tale da dare al lettore la sensazione di vivere storie quasi reali e introdurlo in ambienti sconosciuti per vivere il momento da protagonista nelle varie leggende descritte, l’Autore promette emozioni e curiosità, con aneddoti reali o leggendari che possono avere spiegazioni soltanto da chi vive in queste comunità, del resto Lui non ha fatto altro che ricordarle con questo manoscritto, augurando una buona lettura a tutti.

martedì 16 aprile 2019

Altra pubblicazione sul quotidiano Le Cronache Lucane


Ancora in prima pagina oggi... 
orgoglio e soddisfazione.


La Prima Pagina

L'Articolo


La Battaglia di Acinello (Stigliano)
10 novembre 1861
(Rif. Stigliano.it di Salvatore Agneta)

Nell’anno 1861, l’opera di annessione del Regno delle Due Sicilie da parte di Casa Savoia si poteva dire terminata. E’ terminata si poteva dire anche la dinastia dei Borbone. L’ impresa non fu ben vista dagli altri sovrani e Stati europei, Spagna e Austria su tutti. Questa labile opposizione fece cadere in un errore di valutazione lo stesso Francesco II di Borbone, che da Gaeta e poi da Roma, dove si era rifugiato nella speranza di poter rientrare a Napoli e reimpossessarsi del suo regno, cercò di promuovere attraverso i Comitati Borbonici, sparsi un pò dovunque nel Meridione e all’ estero, iniziative a sostegno della propria causa. Egli affidò ai briganti il compito di restaurare con le armi il vecchio regime, e a pochi “fedeli” il progetto dell’ intera operazione. Nel vano tentativo, dunque, di restaurare il regno dei Borbone, le bande di Crocco e di Borjes iniziarono una sorta di crociata intesa a liberare tutti i paesi della Basilicata controllati dalle truppe piemontesi e sotto il nuovo governo unitario. Molti furono gli scontri tra i briganti e l’ esercito regolare, ma la storia ricorda tre vere grandi battaglie: la prima fu a Toppacivita, la seconda ad Acinello e la terza a Gaudiano. La più importante sul piano politico, la più grande per il numero delle forze in campo e per la strategia adottata dai due schieramenti fu quella di Acinello, presso Stigliano, che si svolse il 10 novembre 1861. Discordanti sono le versioni sul numero dei combattenti (e non solo). Secondo Crocco (nella sua autobiografia – “Come divenni brigante”) la sua banda raggiungeva i 2.000 uomini, mentre Borjes, nel suo “Giornale”, parla di 400 uomini e stima l’avversario in circa 550-600 uomini. I giornali “governativi” dell’ epoca scrissero che le forze comandate dal Pelizza contavano circa 100 soldati di linea e 150 guardie mobili. Le autorità cittadine di Corleto Perticara nel descrivere all’ autorità prefettizia regionale dell’ attacco avvenuto ad Acinello dichiararono “500 dè valorosi nostri lasciano 40 morti col proprio comandante, dopo già di aver fatto gran massacro delle numerose orde comandate da Borjes”. Crocco parla di perdite considerevoli sia tra le sue fila che in quelle del nemico; Borjes dice che vi furono 40 morti fra i nemici e nessuno fra i suoi soldati. Ma passiamo ai fatti. Il capitano Icilio Pelizza da Parma, comandante di due compagnie di bersaglieri del 62° fanteria, provenienti da Matera, e di un contingente di Guardie Nazionali provenienti da Corleto Perticara, informato che i briganti di Crocco stavano facendo sosta ad Aliano, decise di affrontarli presso la località Isca di Acinello, tra l’ omonima taverna e l’ uliveto del principe Colonna, nella valle del Sauro. Crocco venne a sua volta informato della spedizione piemontese. Alla banda di Crocco si era unito da qualche settimana il “cabecilla” spagnolo Josè Borjes, inviato dal Comitato Borbonico di Marsiglia con l’ assicurazione che avrebbe trovato denaro uomini e armamenti, semplicemente da inquadrare e guidare alla riconquista del Regno delle Due Sicilie. Non trovò quanto gli era stato promesso, incontrò, invece, un brigante che lottava per la propria sopravvivenza e poco propenso a cedergli il comando. Comunque il “cabecilla” tenne fede ai patti stipulati con il Comitato e partecipò alle imprese di Crocco. I due capibanda, stimando debole la forza avversaria e inesperta la mano del suo comandante, decisero di attaccare. Le cronache governative dell’ epoca diranno, invece, che fu il capitano Pelizza a stanare i banditi. Lo scontro fu durissimo. Vi furono perdite, dall’ una e dall’ altra parte. La cavalleria di Crocco, comandata da Ninco-Nanco, attraversò il Sauro e girò sul fianco destro del nemico in direzione della Taverna di Acinello, poi con una manovra fulminea attaccò e mise in fuga la Guardia Nazionale. I bersaglieri, rimasti soli intorno al loro capitano, indietreggiarono e presero posizione presso il Mulino di Acinello. Esaurite le ultime cartucce e col nemico a pochi metri, il capitano Pelizza e i suoi bersaglieri tentarono un’ assalto alla baionetta. Molti riuscirono ad aprirsi un varco e a fuggire in direzione di Stigliano, per gli altri, ormai circondati dalle truppe di Crocco e di Borjes, fu la fine. Quattro ore durò lo scontro. Nella battaglia perirono quaranta militari e lo stesso comandante Pelizza. I briganti, incontrastati, presero la via per Stigliano. La sconfitta del 62° fanteria, la morte del suo comandante e la defezione delle Guardie Nazionali destò non poche preoccupazioni tra gli alti vertici del comando dell’ esercito italiano: gli scarsi presidi militari sulla via per Potenza non potevano opporre alcuna valida resistenza; pertanto i briganti avrebbero trovato via libera per l’ occupazione del capoluogo. La capitolazione di Potenza avrebbe avuto come conseguenza quella dell’ intera Basilicata e sancito una grave ed umiliante sconfitta per lo Stato Unitario. Ciò, tuttavia, non avvenne per i contrasti che fin dall’ inizio caratterizzarono i rapporti tra Borjes e Crocco. I briganti si ritirarono presso Lagopesole. Qui i due capi si separarono. Crocco divise i suoi uomini in tante piccole bande: da quel momento la guerra divenne guerriglia. Il movimento del cosiddetto “grande brigantaggio” o “brigantaggio politico” era finito lasciando il posto a quello del brigantaggio comune, che durò fino al 1865, in modo consistente, e per i successivi cinque anni, in modo sporadico.



Carmine Crocco
 


martedì 9 aprile 2019

Continua la pubblicazione di articoli sulla famiglia Persio



Altre notizie su Ascanio Persio


L'Articolo


Ascanio Persio

II° Parte

Persio morì a Bologna il 1° febbraio 1610. Fu sepolto nella chiesa delle suore di S. Agostino; sul sepolcro fu collocato un busto marmoreo e un epitafio dettato da Antonio (il testo in Fantuzzi, 1788, p. 373). Dal matrimonio con la bolognese Costanza Virgili non ebbe prole. L’opera a cui Persio deve la sua fama moderna è il Discorso intorno alla conformità della lingua italiana con le più nobili antiche lingue, e principalmente con la greca, stampato per la prima volta a Venezia nel 1592 da Giovan Battista Ciotti, al quale l’operetta fu mostrata da Giovan Giacomo Tognali. Ciotti se ne entusiasmò a tal punto da pubblicarla senza autorizzazione dell’autore con dedica a Tognali (2 marzo). Lo stesso anno Persio provvide a una ristampa bolognese per Giovanni Rossi, emendata dagli errori tipografici e con dedica a Bonifacio Caetani (1568-1617, al quale e al di lui casato Persio professa la sua devozione e la sua riconoscenza) mantenendo però quella di Ciotti a Tognali. Il Discorso mutua il titolo dal Traicté de la conformité du langage françois avec le grec di Henri Estienne (Genève 1565), in cui il letterato francese aveva studiato il rapporto del francese con il greco piuttosto che con il latino, prendendo però le distanze dalla corrente di studi sviluppatasi in Francia a partire dal terzo decennio del XVI secolo (Joachim Périon, Jean Picard), intorno al tentativo di provare la corrispondenza del francese con il greco antico o addirittura una presunta discendenza, mediata dal celtico parlato dagli antichi abitatori delle Gallie anteriormente alla romanizzazione. In effetti, nel Discorso il greco occupa una posizione praticamente esclusiva. Preoccupazione costante di Persio è di estendere l’orizzonte della sua indagine a tutti i volgari della penisola, nei quali si è disseminata, attraverso differenti vicende storiche, l’eredità ellenica. L’indagine di Persio ha il pregio di portare la scienza etimologica a dialogare con la frammentazione del volgare, che costituiva una specificità della situazione italiana, con la quale gli studiosi francesi non si erano dovuti misurare. Notevole è l’apertura verso l’eredità viva del greco in alcune zone del Meridione, distinta dal greco classico, «che da molto tempo in qua vive solamente ne’ libri» (p. 16), rispetto al quale Persio avverte il problema di rintracciare conformità con la lingua parlata. Persio unisce così, con mirabile equilibrio, competenza etimologica, indagine sul campo e proposta di una lingua italiana che, pur riconoscendo l’eccellenza del toscano («benché in universale la Toscana lingua con molta ragione a tutte le altre Italiane s’antepone», p. 24), non disdegna di accogliere voci proprie ed espressive di altre regioni qualora siano legittimate dal greco e il toscano sia sprovvisto di un termine equivalente. In alcuni passaggi del Discorso Persio dichiara di andare raccogliendo da anni molte «conformità» della lingua greca e latina con la italiana, oltre a diverse «somiglianze» con altre lingue, e tale materiale etimologico, già alquanto voluminoso, sarebbe andato a comporre «un grosso volume», la cui pubblicazione egli era costretto a differire a causa degli impegni di lavoro e del progredire dei confronti tra le lingue, che aumentavano costantemente le schede destinate a trovare posto nel libro (pp. 10-11). Il Discorso costituirebbe un anticipo di questa monumentale opera etimologica, che però non fu mai portata a termine e della quale ci restano solo alcune etimologie di parole e frasi nel ms. Ambrosiano R.109 sup. Il Discorso geografico è edito in Sabatia, scritti inediti o rari, a cura di G. Cortese, Savona 1885, pp. 1-10 (e in G.V. Verzellino, Delle memorie particolari e specialmente degli uomini illustri della città di Savona, I, Savona 1885, pp. 91-98, in entrambi senza indicazione del manoscritto). Il Discorso intorno alla conformità della lingua italiana è stato riproposto all’attenzione degli studiosi da Francesco Fiorentino, con una premessa in forma di epistola a Francesco Lomonaco (Napoli 1874; ristampata in Padula - Motta, 1991, pp. 125-139); l’ed. anast. della stampa bolognese è a cura di T. Bolelli, Pisa 1985 (ristampata in Padula - Motta, 1991, pp. 83-124, insieme con la riproduzione di Bolelli, 1967, alle pp. 141-166). Fonti e Bibl.: V. Havekenthal (Valens Acidalius), Epistularum centuria I, Hannoviae 1606, pp. 133-135, 140-144, 186-189; Lettere memorabili, istoriche, politiche, a cura di A. Bulifon, I, Napoli 1693, pp. 123-126; T. Tasso, Le lettere, a cura di C. Guasti, III, Firenze 1855, p. 150; Inedita Manutiana 1502-1597, a cura di E. Pastorello, Venezia 1960, ad ind.; G. Chiabrera, Lettere, Firenze 2003, pp. 110 s. (i rinvii nell’indice a pp. 122, 134 si riferiscono, a mio avviso, ad altro personaggio). G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, VI, Bologna 1788, pp. 372-378; S. Mazzetti, Repertorio di tutti i professori antichi e moderni della famosa Università di Bologna, Bologna 1848, p. 241; Catalogo dei manoscritti di Ulisse Aldrovandi, a cura di L. Frati, Bologna 1907, ad ind.; L. Firpo, Appunti campanelliani, in Giornale critico della filosofia italiana, XXI (1940), pp. 431-434; E. Pastorello, Epistolario manuziano, Venezia 1957, ad ind.; P.O. Kristeller, Iter italicum, I, II, V, VI, London-Leiden 1960-1992, ad indices (talora confuso con Antonio); T. Bolelli, A. P. linguista e il suo «Discorso», in L’Italia dialettale, 1967, vol. 30, pp. 1-28; M. Padula - C. Motta, Antonio e A. P.: il filosofo e il filologo, Matera 1991; A. Daniele, Sviluppo della critica, in Storia letteraria d’Italia, Il Cinquecento, a cura di G. Da Pozzo, III, Padova 2006, p. 1536; G. Sacchi, Esperienze minori della mimesi, ibid., II, Padova 2006, pp. 1068 s.; F. Pignatti, Etimologia e proverbio nell’Italia del XVII secolo. Agnolo Monosini e i «Floris Italicae linguae libri novem», Manziana 2010, pp. 118-127 e ad ind.; V. Cox, The prodigious Muse. Women’s writing in counter-reformation Italy, Baltimore (MD) 2011, pp. 263, 299 n. 41; A. Lucano Larotonda, Riprendiamoci la storia. Dizionario dei Lucani, Milano 2012, pp. 416 s.; D. Danesi, Cento anni di libri: la biblioteca di Bellisario Bulgarini e della sua famiglia, circa 1560-1660, Pisa 2014, pp. 14, 216.



Ascanio Persio


L'Ennesimo articolo pubblicato sul quotidiano Le Cronache Lucane



La Famiglia Persio... Storia infinita


L'Articolo


Ascanio Persio

I° Parte

Nacque a Matera il 9 marzo 1554 da Altobello, scultore, e da Beatrice Goffredo, ultimo di cinque fratelli: Antonio, Giovanni Battista, Giulio (da cui nacque il giureconsulto e poeta Orazio, 1579-1649), Domizio. Così come il fratello Antonio, si formò a Matera alla scuola tenuta dallo zio materno Leonardo e poi nel convento di S. Francesco, dove studiò logica e filosofia. Probabilmente seguì le orme di Antonio, che, dal 1560 a Napoli, divenne precettore di Lelio e Pietro Orsini, fratelli minori di Ferdinando Orsini, duca di Gravina e conte di Matera; poi si legò alla famiglia Caetani e fu amico di Aldo Manuzio: tutti personaggi con cui anche Ascanio strinse rapporti. Negli anni Settanta Persio fu a Roma, in familiarità con Marc-Antoine Muret e con il letterato sulmonese Ercole Ciofano, e a Venezia. Qui nel 1574 pubblicò, in una stampa sine notis, ma edita da Aldo Manuzio, La corona d’Arrigo III re di Francia, e di Polonia, componimento d’occasione per il passaggio sulla laguna del nuovo re di Francia Enrico III diretto a Parigi per salire sul trono di Francia, composto «in verso volgare Heroico Patritiano», cioè nel verso di tredici sillabe adottato da Francesco Patrizi nel poemetto mitologico Eridano (Ferrara 1557) per ovviare all’inadeguatezza dei metri italiani alla nobiltà dell’epica. Testimonianza dell’amicizia che lo legò ad Aldo Manuzio è la dedica a Persio del Lepidi comici veteris Philodoxios fabula ex antiquitate eruta ab Aldo Manuccio, che Manuzio pubblicò a Lucca nel 1588 con questo frontespizio, incorrendo però in un infortunio, poiché si tratta della commedia autobiografica Philodoxeos scritta da Leon Battista Alberti che si firmò con il nome di Lepido, ingannando a lungo i lettori. Persio studiò lettere greche e latine all’Università di Padova, ma frequentò anche i corsi di filosofia di Iacopo Zabarella. Il 26 settebre 1586 ottenne a Bologna la cattedra di lingua greca, libera per la morte di Pompilio Amaseo, per un biennio con lo stipendio di 800 lire. Negli anni successivi fu confermato senza interruzione, con progressivi aumenti di stipendio, l’ultima volta a vita nel 1609, con l’elevato stipendio di 2000 lire, quando però gli restava poco da vivere. Gli studi filosofici avevano intanto prodotto i Logicarum exercitationum libri duo priores critici (Venezia, F. Valgrisi, 1585) con dedica a Lelio Orsini suo ‘mecenate’, in cui postillò la critica scritta da Bernardino Petrella, professore di filosofia a Bologna, alla Logica di Zabarella, prendendo posizione a favore di quest’ultimo. Seguirono i Logicarum exercitationum liber tertius apologeticorum primus (Bologna, G. Rossi, 1586) e la Defensio criticorum et apologetici primi, quos edidit adversus Bernardini Petrellae logicam in Patavino Gymnasio primo loco profitentis logicas disputationes (Bologna, G. Rossi, 1587). Solo il 10 febbraio 1589 conseguì anche la laurea in filosofia, dopo la quale gli fu dato l’incarico di leggere Aristotele in greco. Sul versante degli studi greci Persio compilò un lessico del I libro dell’Iliade (ne diede notizia per lettera a Roberto Titi il 20 agosto 1597, in Lettere memorabili, 1693, p. 124), pubblicato a cura dell’allievo Grazio Lodi Garisendi con il titolo Indicis in Homeri poemata, quae extant omnia, Graecolatini, et Latinograeci, qui scholiorum fere vicem explere possis, ab Ascanio Persio diligentissime constructi, specimen (videlicet in primum Iliados uterque index)(Bologna, Er. G. Rossi, 1597, precede una lettera di Aldo Manuzio, contenente l’elogio dell’opera). L’indice si compone di un elenco greco-latino e di uno latino-greco; l’opera è presentata come parte di un lavoro lessicografico completo sulle opere omeriche, al quale però non risulta che Persio si sia effettivamente applicato. Lo Specimen ebbe tuttavia risonanza negli studi omerici successivi. Il solo indice greco-latino fu ristampato, in versione ridotta senza glosse, in calce alle Commentationes in I lib. Iliad. Homeri del grecista tedesco Martin Kraus (Crusius) ([Heidelberg], G. Voegelin, 1612, cc. N2r-O6v, che dichiara la dipendenza da una edizione romana, molto probabilmente mai esistita) e, completo, nei Commentarii in Iliadem di Eustazio a cura di Alessandro Politi (I, Firenze 1730, pp. XLI-LXVII).
A conferma del radicamento nella vita culturale cittadina, fu conferita a Persio la cittadinanza bolognese. Compose in italiano, latino e greco la Historia della s. imagine della gloriosa Vergine, la quale si serba su ’l monte della Guardia presso Bologna, nella chiesa di S. Luca, da cui fu dipinta, pubblicata con ampio corredo di versi di autori non solo bolognesi, nei Componimenti poetici volgari, latini et greci di diversi, sopra la s. imagine della beata Vergine dipinta da san Luca la quale si serba nel monte della Guardia presso Bologna, con la sua historia in dette tre lingue scritta da Ascanio Persii (Bologna, V. Benacci, 1601). La Historia fu acclusa nella Vita b. mem. Nicolai Albergati Carthusiani, episcopi Bononiensis edita a Colonia nel 1618 dal certosino Georg Garnefeld, insieme con le biografie di Albergati (1373-1443) di Giacomo Zeno, Poggio Bracciolini e Carlo Sigonio e scritti di altri autori. Le relazioni intellettuali intrattenute da Persio con letterati italiani e stranieri si ricostruiscono per lo più sulla base delle testimonianze epistolari, a stampa e manoscritte. Nell’ottobre 1592 conobbe Tommaso Campanella, di passaggio a Bologna diretto a Padova. In stretti rapporti con il fratello di Persio, Antonio, Campanella era allora già sospetto al S. Uffizio; il nome di Persio emerse in un interrogatorio di Campanella durante il processo a cui fu sottoposto nel 1594 presso il tribunale dell’Inquisizione, ma solo come testimone di opinioni contrarie alla fede cattolica espresse da altri. Altri personaggi con i quali Persio fu in contatto sono Ulisse Aldrovandi, Giovan Vincenzo Pinelli, il latinista tedesco Valtin Havekenthal (Valens Acidalius), studente di filosofia e medicina a Bologna nel 1590-93, Bellisario Bulgarini, Antonio Quarenghi. Della sua abilità di verseggiatore in greco, riconosciutagli dai contemporanei, resta testimonianza nel ms. J.149 inf. della Biblioteca Ambrosiana di Milano e nel Vat. lat. 3435, cc. 63r, 64r (un epigramma a Ippolita Paleotti e una lettera, autografi). Collegamenti con ambienti liguri si ricavano dalla lettera di Pinelli a Manuzio del 26 ottobre 1584 (Inedita Manutiana, 1960, p. 538), nella quale si legge che Persio aveva avuto dal Comune di Genova l’incarico di volgarizzare la Historia Genuensis di Uberto Foglietta, allora in stampa, ma l’incarico gli era stato tolto per dissidi sopraggiunti. Un Discorso geografico intorno alla città di Savona, sulla discussa origine e ubicazione della città ligure, composto su richiesta di Giovanni Antonio Magini, risale al 1602.


Ascanio Persio

La Città