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I Sassi di Matera

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I Sassi di Matera (Clicca per conoscere la sua storia)

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venerdì 2 agosto 2019

La Storia di Giovanni Passannante



L'Attentato al Re Umperto I°



Giovanni Passannante

L’Attentatore del Re Umberto I°

II° Parte


Alla morte del padreUmberto I, accompagnato dalla moglie Margherita e dal figlio (il futuro re Vittorio Emanuele III), preparò un viaggio nelle maggiori città italiane per potersi mostrare al popolo. Nei giorni antecedenti al fatto vi furono diverse proteste di matrice internazionalista nella città partenopea, represse dalle autorità. Un comizio tenuto dall'operaia femminista Annita Lanzara e dai tipografi internazionalisti Luigi Felicò e Taddeo Ricciardi venne interrotto dall'ispettore di pubblica sicurezza. Alcuni partecipanti come Pietro Cesare Ceccarelli, Francesco Saverio Merlino, Francesco Gastaldi, Giovanni Maggi e Saverio Salzano vennero arrestati mentre distribuivano volantini rivoluzionari. Il 17 novembre 1878, la famiglia regnante, assieme al primo ministro Benedetto Cairoli, era in visita a Napoli. Venne preparata un'accoglienza sfarzosa, nonostante le polemiche avutesi in consiglio comunale sulle spese elevate per il ricevimento reale. Quando il corteo giunse all'altezza del "Largo della Carriera Grande" nel mezzo di un pubblico festante, tante persone, in particolare donne, si dirigevano verso la carrozza per porgere suppliche. Passannante era tra gli astanti, attendendo il momento opportuno per avvicinarsi alla carrozza del sovrano, che incedeva lentamente nella piazza. Giunto il suo momento, l'attentatore sbucò all'improvviso dalla folla, salì sul predellino, scoprì un coltello, che teneva avvolto in uno straccio rosso, e tentò di accoltellare il monarca urlando: «Viva Orsini! Viva la Repubblica Universale!». Il re riuscì a difendersi, rimanendo leggermente ferito al braccio sinistro. La regina lanciò in faccia all'aggressore il mazzo di fiori che aveva in grembo e avrebbe urlato: «Cairoli, salvi il re». Cairoli afferrò l'attentatore per i capelli ma venne ferito da un taglio alla coscia destra, una ferita non grave nonostante l'abbondante sangue versato. Accorsero subito i corazzieri e il loro capitano Stefano De Giovannini colpì l'anarchico con un fendente alla testa: l'attentatore venne subito tratto in arresto. La folla circostante, vedendo un uomo ferito condotto via, non si accorse immediatamente del fallito assassinio e pensò che Passannante fosse stato investito dalla carrozza reale: non vi fu quindi alcun tentativo di linciaggio. Il tutto si compì in un tempo così breve che le altre carrozze vicine a quella reale non dovettero mai fermare la loro marcia.
L'arresto: Sanguinante per le ferite alla testa, non venne accompagnato in ospedale per essere medicato e subì altre sevizie. Affermò di aver agito da solo, di aver escogitato l'attentato due giorni prima e negò di appartenere ad alcuna organizzazione politica. Aveva compiuto il suo gesto con un coltello avente una lama di 12 cm che aveva ottenuto barattandolo con la sua giacca. Nel fazzoletto rosso in cui aveva nascosto l'arma, Passannante aveva scritto: «Morte al Re, viva la Repubblica Universale, viva Orsini». Al momento dell'arresto, gli furono sequestrati i documenti: uno di questi era una lettera, che Passannante definì il suo «testamento», indirizzata a un tale don Giovannino, in cui lo pregava di elargire i suoi miseri averi ad alcune persone. L'attentato provocò nella regina Margherita un forte shock, anche se durante la sfilata cercò di mantenere un atteggiamento calmo e sorridente. Tornata alla reggia, si sentì male ed esclamò: «Si è rotto l'incantesimo di Casa Savoia!». Il giorno dopo il re fu visitato da numerosi esponenti della nobiltà e della politica meridionale, tra questi i lucani Ascanio Branca, Salvatore Correale e Giuseppe Imperatrice, che espressero rincrescimento per il fatto che Passannante fosse un loro corregionale. Il re li rincuorò, promettendo di fare una visita in Basilicata il prima possibile. La parola verrà mantenuta e la coppia reale soggiornerà a Potenza tra il 25 e il 27 gennaio 1881.
Le conseguenze: L'attentato sconvolse il regno intero e produsse opposti sentimenti da una parte, con cortei di protesta solidali nei confronti del Re, cui si contrapposero coloro che invece elogiarono l'attentatore. Il giorno successivo, a Firenze, venne lanciata una bomba contro un corteo monarchico: due uomini e una bambina restarono uccisi e una decina di persone furono ferite. Si attribuì la tragedia agli internazionalisti e vennero arrestati diversi esponenti del movimento, che verranno poi scarcerati per mancanza di prove. Uno di loro, Cesare Batacchi, verrà graziato solo il 14 maggio 1900. Secondo alcuni, l'arresto di Batacchi e degli altri internazionalisti sarebbe stato una strumentalizzazione poliziesca per reprimere le associazioni avverse alla monarchia. A Pisa, un'altra bomba venne fatta esplodere durante una manifestazione a favore del re, ma non si registrarono vittime. Venne arrestato un tale Pietro Orsolini, che, nonostante diverse prove di innocenza, morì nel carcere di Lucca nel 1887. La notte del 18 novembre venne assalita una caserma a Pesaro con un deposito di 5.000 fucili: un internazionalista fu arrestato. Si registrarono sommosse in tutta la nazione e il governo, che temeva un complotto anarchico contro la corona, intervenne con un'opera di repressione. Vi furono scontri con le forze dell'ordine in città come BolognaGenovaPesaro e molte persone vennero arrestate al solo elogio verso l'attentatore o alla sola denigrazione nei confronti del re, come accadde a TorinoCittà di CastelloMilanoGuglionesiLa Spezia e Bologna. Il poeta Giovanni Pascoli, intervenendo in una riunione di aderenti ad ambienti socialisti a Bologna, diede pubblica lettura di una sua Ode a Passannante. Subito dopo la lettura, Pascoli distrusse l'ode e di tale componimento si conosce solo il contenuto dei versi conclusivi, di cui è stata tramandata la parafrasi: «Colla berretta d'un cuoco, faremo una bandiera».Sull'esistenza dell'ode non esistono fonti concrete, anche se Gian Battista Lolli, segretario della federazione socialista di Bologna e amico di Pascoli, sostenne di aver assistito alla lettura e attribuì al poeta la composizione dell'opera. Pascoli, in seguito, verrà arrestato per aver manifestato a favore degli anarchici che erano stati a loro volta tratti in arresto per i disordini generati dalla condanna di Passannante. Durante il loro processo, il poeta urlò: «Se questi sono i malfattori, evviva i malfattori!». Paul Brousse, direttore del giornale anarchico L'Avant-Garde di Neuchâtel, pubblicò sulla propria testata un articolo apologetico su Passannante e altri attentatori come Juan Oliva MoncasiMax Hödel e Karl Nobiling. Il paragrafo presenta l'anarchico lucano con simpatia e ammirazione, arrivando a definirlo «una natura energica». La pubblicazione generò polemiche e la Svizzera, asilo politico di numerosi anarchici, ricevette accuse di essere un focolaio di cospirazione antimonarchica a livello internazionale. I sovrani d'ItaliaGermaniaRussia e Spagna fecero pressioni sul governo svizzero affinché invalidasse l'attività del giornale per non turbare i rapporti diplomatici. Così L'Avant-Garde fu soppresso, Brousse venne arrestato ed espulso dalla Svizzera. Durante il processo, Brousse si rifiutò di nominare l'autore dell'articolo, il quale, secondo alcune voci, sarebbe l'anarchico Carlo Cafiero, che si trovava in Svizzera in quel periodo. Pochi giorni dopo il tentato regicidio, in Parlamento la condanna dell'attentato fu unanime ma il governo Cairoli fu attaccato dalla destra e da una parte della sinistra, con l'accusa di incapacità nel tutelare l'ordine pubblico e di eccessiva tolleranza nei confronti delle associazioni internazionaliste e repubblicane. L'11 dicembre 1878, il ministro Guido Baccelli presentò una mozione di fiducia al governo, che fu respinta con 263 voti contrari, 189 favorevoli e cinque astenuti, costringendo Cairoli a rassegnare le dimissioni.

martedì 23 luglio 2019

L'Attentato al Re Umberto I°


1878 Storia dell'attentato da parte di un Lucano 
al Re D'Italia




Giovanni Passannante

ANARCHICO ITALIANO

(Salvia di Lucania, 19 febbraio 1849 – Montelupo Fiorentino, 14 febbraio 1910)

Nel 1878 fu autore di un attentato fallito alla vita di re Umberto I, il primo nella storia della dinastia Savoia. Condannato a morte, la pena gli fu commutata in ergastolo. La sua prigionia fu spietata e lo condusse alla follia, sollevando un enorme scandalo nell'opinione pubblica. Venne, in seguito, trasferito in manicomio, ove passò il resto della sua vita. Il suo paese d'origine, in segno di penitenza, fu rinominato Savoia di Lucania in onore della famiglia reale, nonostante gli abitanti conservino, tuttora, la denominazione di salviani.
Gli inizi: Nato a Salvia di Lucania, provincia di Potenza, da Pasquale Passannante e Maria Fiore, fu l'ultimo di dieci figli, quattro dei quali morti in tenera età. In paese era soprannominato "Cambio" e aveva una mano storpia a causa di una scottatura nell'acqua bollente quando era ragazzino. Le difficili condizioni economiche della famiglia lo costrinsero a elemosinare sin da bambino. Desideroso di apprendere, poté frequentare solo la prima elementare, cercando di imparare a leggere e scrivere da sé. Svolse lavori occasionali per aiutare la famiglia, facendo il guardiano di pecore e il domestico. In seguito, Passannante si recò a Vietri, lavorando come sguattero, e poi a Potenza, trovando impiego come lavapiatti presso l'albergo "Croce di Savoia", ma venne licenziato, a detta del proprietario, per il suo carattere ribelle e perché passava il tempo a leggere libri e giornali, anche se l'anarchico negò il fatto, asserendo che si dedicava alla lettura durante il tempo libero e che si autolicenziò in quanto il suo datore, in quattro mesi di lavoro, non l'aveva mai pagato. A Potenza conobbe Giovanni Agoglia, ex capitano dell'esercito napoleonico e anch'egli originario di Salvia, il quale, notato l'interesse del ragazzo per gli studi, lo portò con sé a Salerno, assumendolo come domestico e assegnandogli un vitalizio per migliorare la sua istruzione. Passannante alternò la lettura della Bibbia a quella dei giornali e degli scritti di Giuseppe Mazzini. Inizialmente cattolico e fervente nelle pratiche religiose, si convertirà al culto evangelico e abbandonerà le forme esteriori, anche se la fede in Dio rimarrà viva in lui.
Attività politica: Passannante incominciò a frequentare circoli filomazziniani e conobbe Matteo Melillo, uno dei maggiori esponenti internazionalisti di Salerno. La frequentazione di associazioni repubblicane gli procurò i primi problemi con la legge. Nella notte tra il 15 e il 16 maggio del 1870 due guardie di pubblica sicurezza trovarono Passannante mentre stava affiggendo proclami rivoluzionari. Passannante, venuto a conoscenza di un'imminente insurrezione in Calabria contro il governo, tentò di incitare la popolazione salernitana a fare altrettanto. I manifesti di Passannante erano un'invettiva contro le monarchie e il papato, inneggiando alla Repubblica, a Mazzini e Garibaldi (a ogni modo, Passannante rivedrà, anni dopo, il suo pensiero sul condottiero nizzardo, accusandolo di simpatie verso la monarchia). Le guardie lo arrestarono con l'accusa di sovversione. Aveva con sé una copia de Il popolo d'Italia, giornale mazziniano, che gli fu sequestrata, e fu trattenuto in carcere per tre mesi. Secondo la deposizione di un inquilino che abitava nello stesso palazzo di Passannante, questi stava imparando il francese e progettava l'assassinio di Napoleone III, accusandolo di essere «la causa di impedimento all'attuazione della Repubblica Universale».
Uscito di prigione e tenuto sotto sorveglianza dalla prefettura di Salerno, tornò brevemente presso la famiglia a Salvia e, di ritorno a Salerno, trovò impiego come cuoco presso la fabbrica dei tessuti degli Svizzeri. Si licenziò e aprì un locale, La Trattoria del Popolo, in cui elargiva spesso pasti gratuiti; il ristorante venne chiuso nel dicembre del 1877. Orientatosi verso le idee anarchiche, si iscrisse alla Società Operaia di Pellezzano, che lasciò, in seguito, per contrasti con gli amministratori; entrò poi alla Società di Mutuo Soccorso degli Operai e grazie al suo attivismo i membri passarono da 80 a 200; Passannante lasciò anche questa organizzazione per gli stessi motivi. Nel giugno 1878 si trasferì a Napoli, dove visse alla giornata cambiando diversi datori di lavoro.
L'attentato: Alla morte del padre, Umberto I, accompagnato dalla moglie Margherita e dal figlio (il futuro re Vittorio Emanuele III), preparò un viaggio nelle maggiori città italiane per potersi mostrare al popolo. Nei giorni antecedenti al fatto vi furono diverse proteste di matrice internazionalista nella città partenopea, represse dalle autorità. Un comizio tenuto dall'operaia femminista Annita Lanzara e dai tipografi internazionalisti Luigi Felicò e Taddeo Ricciardi venne interrotto dall'ispettore di pubblica sicurezza. Alcuni partecipanti come Pietro Cesare Ceccarelli, Francesco Saverio Merlino, Francesco Gastaldi, Giovanni Maggi e Saverio Salzano vennero arrestati mentre distribuivano volantini rivoluzionari. Il 17 novembre 1878, la famiglia regnante, assieme al primo ministro Benedetto Cairoli, era in visita a Napoli. Venne preparata un'accoglienza sfarzosa, nonostante le polemiche avutesi in consiglio comunale sulle spese elevate per il ricevimento reale. Quando il corteo giunse all'altezza del "Largo della Carriera Grande" nel mezzo di un pubblico festante, tante persone, in particolare donne, si dirigevano verso la carrozza per porgere suppliche. Passannante era tra gli astanti, attendendo il momento opportuno per avvicinarsi alla carrozza del sovrano, che incedeva lentamente nella piazza. Giunto il suo momento, l'attentatore sbucò all'improvviso dalla folla, salì sul predellino, scoprì un coltello, che teneva avvolto in uno straccio rosso, e tentò di accoltellare il monarca urlando: «Viva Orsini! Viva la Repubblica Universale!». Il re riuscì a difendersi, rimanendo leggermente ferito al braccio sinistro. La regina lanciò in faccia all'aggressore il mazzo di fiori che aveva in grembo e avrebbe urlato: «Cairoli, salvi il re». Cairoli afferrò l'attentatore per i capelli ma venne ferito da un taglio alla coscia destra, una ferita non grave nonostante l'abbondante sangue versato. Accorsero subito i corazzieri e il loro capitano Stefano De Giovannini colpì l'anarchico con un fendente alla testa: l'attentatore venne subito tratto in arresto. La folla circostante, vedendo un uomo ferito condotto via, non si accorse immediatamente del fallito assassinio e pensò che Passannante fosse stato investito dalla carrozza reale: non vi fu quindi alcun tentativo di linciaggio. Il tutto si compì in un tempo così breve che le altre carrozze vicine a quella reale non dovettero mai fermare la loro marcia.
L'arresto: Sanguinante per le ferite alla testa, non venne accompagnato in ospedale per essere medicato e subì altre sevizie. Affermò di aver agito da solo, di aver escogitato l'attentato due giorni prima e negò di appartenere ad alcuna organizzazione politica. Aveva compiuto il suo gesto con un coltello avente una lama di 12 cm che aveva ottenuto barattandolo con la sua giacca. Nel fazzoletto rosso in cui aveva nascosto l'arma, Passannante aveva scritto: «Morte al Re, viva la Repubblica Universale, viva Orsini». Al momento dell'arresto, gli furono sequestrati i documenti: uno di questi era una lettera, che Passannante definì il suo «testamento», indirizzata a un tale don Giovannino, in cui lo pregava di elargire i suoi miseri averi ad alcune persone. L'attentato provocò nella regina Margherita un forte shock, anche se durante la sfilata cercò di mantenere un atteggiamento calmo e sorridente. Tornata alla reggia, si sentì male ed esclamò: «Si è rotto l'incantesimo di Casa Savoia!». Il giorno dopo il re fu visitato da numerosi esponenti della nobiltà e della politica meridionale, tra questi i lucani Ascanio Branca, Salvatore Correale e Giuseppe Imperatrice, che espressero rincrescimento per il fatto che Passannante fosse un loro corregionale. Il re li rincuorò, promettendo di fare una visita in Basilicata il prima possibile. La parola verrà mantenuta e la coppia reale soggiornerà a Potenza tra il 25 e il 27 gennaio 1881.

lunedì 22 luglio 2019

La seconda parte della storia tra Diego e Isabella



e la storia continua...







Isabella e Diego un amore impossibile

Il rapporto con Diego Sandoval de Castro: Isabella ebbe modo di stringere una corrispondenza segreta con Diego Sandoval de Castro, poeta di origine spagnola e barone del vicino paese di Bollita (oggi Nova Siri), nonché castellano di Cosenza. Poeta di qualche reputazione, Sandoval era membro dell'Accademia degli Umidi e nel 1542 aveva pubblicato, a Roma, un volume di rime petrarchiste. I due intrapresero uno scambio segreto di lettere in cui il pedagogo di Isabella svolse il ruolo di intermediario. Si dice inoltre che entrambi ebbero modo di incontrarsi in alcune occasioni in un casale della famiglia Morra, a metà strada tra Favale e Bollita. Di che natura fosse il rapporto tra Diego Sandoval de Castro e Isabella, nella Basilicata remota e al di fuori delle maggiori correnti culturali del tempo, rimane a oggi un mistero. Certo si sa che le lettere che don Diego spedì a Isabella furono inviate a nome di sua moglie, Antonia Caracciolo, alle quali la giovane poetessa avrebbe risposto. Gli storici hanno supposto che Isabella e Antonia Caracciolo si conoscessero già prima dell'inizio dello scambio epistolare. Benché vi sia un breve riferimento al matrimonio, nel canzoniere della poetessa non vi è alcuna traccia di sentimento amoroso nei confronti di Sandoval o di qualsiasi uomo e nelle rime del barone vi è l'ode alla persona amata, probabilmente ad una donna in particolare o solamente seguendo il tema dell'amore in voga al tempo. Tuttavia, nella testimonianza della Caracciolo riportata da Alonso Basurto, governatore spagnolo della provincia di Basilicata, a seguito della morte del marito si legge che Diego venne ucciso per aver corteggiato una sorella del barone di Favale ma è ignoto se la poetessa ricambiasse il sentimento. Che si trattasse di un legame sentimentale o di un'amicizia intellettuale nati in condizioni di duro isolamento, i fratelli ne furono informati. Decio, Cesare e Fabio, supponendo un rapporto extraconiugale, decisero rapidamente di porre fine alla vicenda meditando l'assassinio della sorella e del nobiluomo, quest'ultimo probabilmente visto anche come un intralcio poiché temevano che avrebbe potuto sollecitare il governatore della provincia di Basilicata per sottrarre Isabella dall'oppressione a cui la costrinsero, benché Croce abbia smentito tale ipotesi.
Diego Sandoval De Castro: Di origini spagnole, era unico e legittimo figlio del nobile iberico don Pedro (lontano discendente dalla casa reale di León), trasferitosi nel viceregno di Napoli nei primi anni del Cinquecento: in seguito un altro ramo della stirpe si diffuse in Sicilia. Sua madre fu Giovanna Bisbal, scomparsa precocemente. Il piccolo Diego, nato probabilmente nel feudo calabrese amministrato dall'avo materno Francesco Bisbal, conte di Briatico (dal 1496) e Calimera, venne posto sotto tutela della vedova di questi, Caterina Saracina, per 11 anni, fino al raggiungimento della maggiore età. Don Diego militò nell'esercito dell'imperatore Carlo V, prima di essere investito della baronia di Bollita, oggi Nova Siri (in provincia di Matera), e di ottenere la castellania di Cosenza. Acquistò nel 1534, per la somma di 5000 ducati, il feudo di Campana da Ferdinando Spinelli. L'anno successivo ricevette Carlo V, proveniente da Tunisi, a Cosenza. Nel 1541 intervenne nella battaglia di Algeri. Sandoval fu iscritto all'Accademia Fiorentina, dove si inimicò il Lasca, dal quale fu denigrato in un sonetto satirico con questo verso: "Senza sapere punto di lingua e col fare al Petrarca la bertuccia". Don Diego sposò per procura l'aristocratica napoletana Antonia Caracciolo; tuttavia intrecciò un legame culturale e forse amoroso con la baronessa di Favale (oggi Valsinni, in Basilicata) Isabella di Morra. Entrambi si dilettavano scrivendo e inviandosi vicendevolmente alcune poesie, e il 28 marzo 1542 il barone pubblicò una raccolta delle sue rime petrarchesche, in cui celebrò l'amore, il dolore e la bellezza femminile. La corrispondenza tra i due personaggi veniva scambiata attraverso il precettore di donna Isabella e indirizzata alla moglie Antonia: oggi rimangono solo le lettere che il Sandoval scrisse a donna Isabella, mentre le risposte non sono pervenute. Nel 1543 il nobiluomo fu accusato di fellonia e sospeso dall'incarico di castellano di Cosenza. Decise, pertanto, di dimorare a Benevento da dove, segretamente, raggiungeva il suo castello di Bollita, abitato dalla consorte e dai figli: il maniero, edificato nel punto più alto, esiste tuttora e racchiude la piazza del borgo, in modo che il feudatario potesse esercitare una serrata vigilanza. Nel 1546 i fratelli di Isabella scoprirono la presunta relazione tra i due e presero la decisione di ucciderla, nel castello di Valsinni, insieme al suo pedagogo. Il trentenne don Diego, invece, fu trucidato pochi mesi dopo con tre colpi di archibugio durante una battuta di caccia nei boschi di Noia, presso Potenza: gli assassini ripararono in seguito in Francia presso il padre Giovanni Michele, che già da anni si trovava presso la corte di Francesco I, e che li protesse riuscendo ad evitare un processo a loro carico per fratricidio e pluriomicidio. Dietro il loro supposto "delitto d'onore" si presume che si celassero motivi d'interesse (spartirsi la dote e l'eredità di Isabella) e inveterate avversioni politiche (Diego era fautore dell'imperatore Carlo V, mentre la famiglia della poetessa parteggiava per il re di Francia). Diego Sandoval de Castro fu sepolto nella cripta della Chiesa Madre di Bollita, ma il sito preciso non è stato individuato. 




venerdì 21 giugno 2019

Oggi Su Le Cronache Lucane... Isabella e Diego...



Storia struggente tra amanti trucidati


La Prima

L'Ardticolo


Isabella Morra Poetessa Lucana 
(Favale, 1520 circa Favale, 1545 o 1546)

Isabella nacque a Favale (odierna Valsinni in provincia di Matera) da Giovanni Michele di Morra, barone di Favale, e Luisa Brancaccio, appartenente a un'aristocratica famiglia napoletana. Altri componenti della famiglia erano i fratelli Marcantonio, Scipione, Decio, Cesare, Fabio, Camillo e la sorella Porzia. L'anno preciso di nascita rimane ignoto; generalmente viene riportato quello dedotto da Benedetto Croce, che lo situa poco dopo il 1520, mentre altri studiosi come Giovanni Caserta ritengono sia nata qualche anno prima, ponendo la data intorno al 1516. Isabella, assieme al fratello Scipione, poco più grande di lei o forse gemello, venne educata dal padre, uomo colto e amante della letteratura, che le trasmise l'amore per la poesia. Tuttavia, Giovanni Michele fu costretto a emigrare prima a Roma e infine a Parigi nel 1528, dopo la sconfitta delle truppe di Francesco I di Francia di cui era alleato e la vittoria di Carlo V d'Asburgo per il possesso del Regno di Napoli. Il fratello Scipione seguì il padre a Roma, dove rimase per approfondire gli studi; l’ambasciatore francese presso la Santa Sede ebbe occasione di ammirarlo e lo portò con sè, raggiungendo il padre a Parigi. Il feudo di Favale, di cui erano titolari i Morra fin dall'epoca normanna, fu alienato per alcuni anni al re di Spagna. Il crimine commesso da Giovanni Michele poté essere perdonato tramite il pagamento di un'ammenda ma lui rimase in Francia servendo nell'esercito e partecipando alla vita culturale della capitale. Dopo varie trattative legali, il territorio tornò ai Morra, e fu conferito al primogenito Marcantonio. A Favale rimase la moglie con i figli (l'ultimogenito Camillo nacque dopo la partenza del padre) e Isabella fu affidata ad un precettore che la istruì negli studi di Petrarca e degli autori latini. I rapporti tra Isabella e i fratelli minori Decio, Fabio e Cesare erano aspri e si incrinarono sempre di più. I fratelli, che a detta del nipote Marcantonio il «luogo agreste» li aveva resi «feroci e barbari»,la reclusero nel castello di Favale, dove trascorse gran parte della sua breve esistenza. Nel maniero Isabella si dedicò a comporre le sue liriche, trovando nella poesia l'unico conforto per alleviare la solitudine. 
La sua breve vita, contrassegnata da isolamento e tristezza, si concluse con il suo assassinio da parte degli stessi fratelli a causa di una presunta relazione clandestina con il barone Diego Sandoval de Castro che subì la medesima sorte. Sconosciuta in vita, Isabella di Morra acquistò una certa fama dopo la morte, e divenne nota per la sua tragica biografia ma anche per la sua poetica, tanto da essere considerata una delle voci più autentiche della poesia italiana del XVI secolo, nonché una pioniera del Romanticismo. Non si conoscevano notizie documentate inerenti alla sua vita fino a quando Marcantonio, figlio del fratello minore Camillo, non pubblicò una biografia della famiglia Morra dal titolo Familiae nobilissimae de Morra historia, nel 1629.
L’Assassinio: Scoperto il supposto intrigo amoroso, la prima vittima dei fratelli Morra fu il suo istitutore e in seguito rintracciarono la loro sorella. Secondo il racconto del nipote Marcantonio, gli aguzzini sorpresero Isabella con le lettere tra le mani ancora chiuse, la quale si difese dicendo che erano state inviate dalla Caracciolo, ma ciò non bastò a placare la loro ira. Isabella venne pugnalata a morte. Due di essi fuggirono per breve tempo in Francia poiché ricercati dalla Gran Corte della Vicaria ma si riunirono ben presto per terminare la vendetta contro Don Diego il quale, temendo che la loro furia si abbattesse anche su di lui, reclutò invano una scorta. I tre assassini, con l'aiuto di due zii Cornelio e Baldassino, probabilmente spinti anche dall'odio verso gli spagnoli, gli tesero l'agguato fatale, ammazzando il barone a colpi di archibugio nel bosco di Noia (l'odierna Noepoli). Anche l'anno di morte della poetessa rimane un mistero, sebbene sia Croce che Caserta concordano che sarebbe avvenuto tra la fine del 1545 e il 1546 mentre altre fonti riportano 1548. L'assassinio di Diego Sandoval de Castro provocò, all'epoca, reazioni di deplorazione molto più ampie che non l'uccisione di Isabella. Nel codice d'onore del XVI secolo, era infatti ammissibile lavare col sangue il disonore arrecato alla famiglia da uno dei suoi membri, specie se donna. Ciò che non era ammissibile era il coinvolgimento di persone terze nella risoluzione di un contenzioso, mediante duello e uccisione, a tradimento, di un superiore in rango. Si ritiene che l'omicidio del barone fu solo la copertura di interessi legati a motivi politici, essendo i Morra legati ai Francesi, mentre de Castro aveva militato nell'esercito di Carlo V, prima di essere investito della baronia di Bollita e di ottenere la castellania di Cosenza.
Conseguenze: Dopo il massacro i tre fratelli furono costretti a rifugiarsi in Francia per sfuggire all'ira del viceré Pedro de Toledo che fece setacciare l'intera provincia. Essi raggiunsero Scipione e il padre che mancava da circa venti anni da casa. Il biografo di famiglia Marcantonio sostenne che suo nonno Giovanni Michele fosse deceduto prima di Isabella, ma Benedetto Croce dimostrò che morì dopo la tragedia, poiché continuò a percepire la pensione dal Re di Francia almeno fino al 1549. Scipione, benché scioccato e disgustato dagli omicidi, decise infine di aiutare i propri fratelli a sistemarsi in Francia. Di Fabio non si hanno notizie certe, Decio si fece prete e Cesare sposò una nobildonna francese. Scipione, uomo influente che ricoprì l'incarico di segretario della regina Caterina de' Medici, verrà avvelenato da altri cortigiani, poiché invidiosi del suo ruolo privilegiato. La stessa regina, sdegnata per l'accaduto, punirà i colpevoli. Nel frattempo i fratelli rimasti a Favale furono processati. Marcantonio non risultò essere tra gli ideatori del delitto; ciononostante, fu imprigionato per alcuni mesi e in seguito rilasciato. Camillo, l'ultimogenito, fu invece completamente assolto dall'accusa di complicità poiché totalmente estraneo ai fatti. Dalle ricerche condotte da Gaetana Rossi su documenti d'archivio emerge che l’assassinio della poetessa fu compiuto dai fratelli quando la madre era ancora viva e presente nel castello di Favale.
Da allora Isabella si aggira ancora tra le mura del castello, avvolta da un grande mantello con un cappuccio calato a celare il viso, piangendo e singhiozzando.
Opere: Gli scritti di Isabella furono scoperti dagli ufficiali del viceré di Napoli e "messi agli atti", durante l'indagine che seguì l'uccisione di Diego Sandoval de Castro, allorché il castello di Valsinni fu perquisito. Nonostante il corpus estremamente esiguo a noi pervenuto (dieci sonetti e tre canzoni), la poesia di Isabella è considerata una delle più intense e toccanti della lirica cinquecentesca. Molte sono state le letture del suo canzoniere in chiave meramente femminista (tenuto conto del limitato numero di donne presenti nella letteratura italiana del tempo), specialmente in ambito statunitense, senza che tenessero in sufficiente considerazione il retroterra culturale e storico dell'epoca.


Alla memoria


Il Castello


Il suo spirito vaga ancora nel Castello


Isabella di Morra


L'Ingresso del Castello


Ritratto di Isabella


Gli sfortunati amanti

giovedì 20 giugno 2019

Sonetti di Diego Sandoval De Castro




Comincia la serie di Sonetti Poetici di Don Diego Sandoval De Castro, Barone di Bollita, l'antica Nova Siri, nella Provincia di Matera, ardente, quanto segreto e galeotto amante, della sfortunata ed insoddisfatta, Isabella di Morra... un amore impossibile, finito in tragedia.




Diego e Isabella















martedì 18 giugno 2019

Ancora un mio articolo pubblicato sul quotidiano Le Cronache Lucane



Il Patriota Ferrandinese...




Giuseppe Venita… rivoluzionario Lucano


Nasce nel 1774 da Camilla Schiavone e Vincenzo, in un ameno paesino della Lucania, Ferrandina. Sin da adolescente fu cosciente della sofferenza e miseria sempre più dilagante nel Sud. Dopo un breve periodo di volontariato in seminario, capì che la sua più grande vocazione era la rivoluzione, si arruolò nell’esercito borbonico apparentemente come valoroso combattente ma, in realtà, il suo obiettivo era ben preciso : controllare le mosse dell’esercito; una spia, dunque.
Dal 1799 in Basilicata comincia un periodo denso di profondi e forti sconvolgimenti politici ma è necessario sfatare un luogo comune, il Risorgimento lucano non dura dal 1799 al 1860, bisogna, invece, andare indietro nel tempo, nella seconda metà del XVII secolo, data in cui cominciò a costituirsi e formarsi una nuova classe dirigente che coglie l’opportunità di venire allo scoperto, nella rivoluzione del 1799. I manuali di storia non danno importanza ad una data importante del Mezzogiorno italiano, il 16 luglio 1860 in cui si verificò una forte sommossa da cui deriveranno grandi trasformazioni sociali.
E’ fondamentale approfondire l’identità storico-culturale della nostra regione, poiché non è nota a tutti, ma a pochi. A questo proposito, don Giuseppe De Luca (1898-1962) dice: “Io sono dell’Italia meno italiana che esista, dell’ultima Italia che si stende verso l’Africa e la Grecia, stata gran tempo sinora albergo di vari signori, e mai casa nostra soltanto, sicchè sembriam ,noi, senza volto o almeno nessuno ce ne riconosce uno”.
Negli ultimi decenni del XVIII secolo, nei diversi comuni lucani, non sono rare agitazioni e sommosse, soprattutto nel materano, in cui cominciano ad avvertirsi i segni di un radicale cambiamento, furono tanti coloro che si aprirono a frequenti incontri con i corregionali Luigi Lo monaco, fratello di Francesco, Felice Mastrangelo e Niccolò Fiorentino, ma i veri animatori della rivoluzione, a Ferrandina, furono proprio i Venita, appartenenti ad una ricca famiglia di galantuomini. Giuseppe Venita è stato considerato, in Basilicata, uno dei più valorosi condottieri dei moti carbonari del 1820. Dopo essersi arruolato nell’esercito borbonico, nel 1798, divenne sergente e passò al servizio del Governo repubblicano. Nel 1799, dopo aver seguito Felice Mastrangelo nella difesa di Altamura, dinanzi alla caduta della città, decise di rifugiarsi a Napoli dove venne fatto prigioniero a Castel dell’Ovo. Successivamente riparò in Francia, fu processato e arruolatosi nell’esercito, partecipò alla campagna d’Italia.
Venita si spostava continuamente tra i vari paesi melfitani perché il suo obiettivo era uno soltanto, distogliere l’attenzione per la grande sommossa a cui stava meditando già da tanto.
Le sommosse di Ferrandina e Montemilone fallirono e nonostante ciò Venita continua a preparare la successiva sommossa programmata per il 17 luglio 1821. Anche Montalbano, vista la presenza di numerosi carbonari, era tra le città che avrebbero dovuto ribellarsi se avessero avuto esito positivo le sommosse di Ferrandina e Montemilone, la prova di ciò è data da una dichiarazione del giudice Vallesi in una lettera nella quale afferma: “raccolsi già fatti accorsi in aprile, maggio, giugno e luglio in questo distretto circa la proclamazione della repubblica, che voleva farsi in Montalbano, loro autore, il Venita”.
Il rivoluzionario cerca di fuggire ma viene arrestato e il 13 marzo 1822, alle ore 18.00, alla periferia di Calvello, in località Fontanella, viene fucilato insieme al fratello Francesco, questo il giudizio di Giustino  Fortunato su Venita e altri rivoluzionari: “erano uomini dalle passioni violente, di spiriti irrequieti, la fantasia accesa e più forte della ragione.
Fu una follia la loro, ma una generosa follia, che essi scontarono col sangue e suggellarono con la miseria, con la perdita dei loro affetti più cari. E il cuore umano non è ancora così insensibile da negare una lacrima, un palpito di tenerezza alla loro memoria”.








venerdì 14 giugno 2019

Ennesimo articolo a mia firma sul quotidiano Le Cronache Lucane



Il Prefetto di ferro...


STEFANO PIRRETTI 
IL PREFETTO DI FERRO

Nacque a Ferrandina il 28 Febbraio 1877, figlio di Rocco e di Maria Filomena Trifogli, nella sua casa di via Garibaldi nel centro storico dell’allora paesino Lucano, la sua prima educazione fu dettata da una famiglia molto agiata e quindi dotata di valori ferrei e rigidi, prerogative del tempo, in cui vigeva l’obbligo di formazione corretta e onesta, soprattutto in famiglie agiate, dove l’obbligo della cultura e dell’istruzione era fondamento principale per onorare e proseguire le origini storiche di dette famiglie. Non fu proprio tranquilla la sua infanzia, perde la mamma in età molto prematura, proseguendo la sua giovane vita senza l’affetto materno, che gli segnò tutto il suo tragitto sino ad età avanzata. La sua istruzione ebbe inizio grazie all’impegno dello zio paterno (Giuseppe) sacerdote molto dotato nella disciplina classica, che seppe dargli il giusto indirizzo, studiò latino e greco, letteratura italiana con metodo severo e con la necessaria importanza che la materia richiedeva, inculcandogli il rispetto, la dignità umana ed il sacrificio da dedicare al lavoro per affrontare la vita terrena. Continuò i suoi studi a Napoli, conseguendo la licenza di maturità Liceale, il 25 Giugno 1895, e la laurea in Giurisprudenza all’Università di Napoli nel 1899 all’età di 22 anni, superandola brillantemente. Raggiunta l’età di 25 anni, Stefano Pirretti convola a nozze con Margherita Trifogli, il 19 Aprile 1902, nobildonna di elevato livello sociale, figlia di Giovanni Battista Trifogli e di Laura De Leonardis grandi proprietari terrieri e borghesi Ferrandinesi. Il matrimonio portò alla nascita di 5 figli, di cui 3 maschi, Rocco, Luigi, Giuseppe, e due femmine, Maria e Laura. Il 18 Gennaio 1903 tramite concorso pubblico fece ingresso nell’amministrazione dello Stato, con incarico nel Ministero dell’Interno, tra gli anni 1910 e 1920 ebbe modo di distinguersi nell’operato, e di essere apprezzato al punto di ricoprire incarichi di sotto prefetto a Chioggia, Orvieto, Modica, Mortara, Vergato e Rimini, che successivamente gli portò a consolidare la sua carriera alla Prefettura di Catanzaro, Potenza, Perugia e Bologna. La sua brillante carriera in dette prefetture lo portò a riconoscenze e promozioni a Prefetto di Bergamo e di Aosta, ben voluto e rispettato per il suo buonsenso e per la sua umiltà. Nel 1929 dal mese di Luglio a Maggio dell’anno 1933 fu anche Prefetto di Sondrio, ma dulcis in fundo, per le sue attitudini e capacità speciali a rappresentare lo Stato determinarono, il 14 Settembre 1934 la nomina di Prefetto di 1° Classe della Città di Matera, appena elevata a provincia con Regio Decreto n°1 del 2 Gennaio 1927, nei primi sette anni di Provincia, Matera incominciò a delinearsi nello sviluppo economico e sociale, passando nell’arco di poco tempo da 18.357 abitanti nel 1921 a 20.163 nel 1931, nella costruzione di edifici amministrativi, la Provincia, il Palazzo del Governo, la Questura, le case popolari, costruzioni indicate nel periodo di “fase costituente” della nuova Città. L’insediamento del Prefetto Pirretti a Matera sembrò in primo luogo un po’ riduttivo, data la sua brillante carriera trascorsa, invece fu valorizzata maggiormente per la grande esperienza e capacità con cui furono gestite tutte le attività di sviluppo e slancio della nuova  provincia, con l’avvio di soluzioni urgenti a problemi infrastrutturali che la Città aveva bisogno. Per la sua costante culturale improntata sul rigoroso rispetto della legalità, il Prefetto Stefano Pirretti dava certezza della corretta attuazione delle disposizioni governative e dei programmi stabiliti, e per questo, diversamente dai suoi predecessori, la sua carica nella Città di Matera ebbe la durata di tutti i cinque anni stabiliti, dal 14 Settembre 1934 al 21 Agosto 1939. Oltre ad occuparsi della Città, Pirretti ebbe modo anche di operare nella provincia, a livello agricolo come anche artigiano, risolvendo in parte anche la disoccupazione del periodo, che vedeva la provincia abbastanza malandata, nota fu la famosa “Bonifica integrale” impiantata soprattutto nel Metapontino. La sua vita privata, comunque, fu sempre tenuta riservata agli occhi degli estranei, ma è pur sempre trapelato che il suo comportamento in famiglia fu discreto, rispettoso e attento alla esigenze, anche se molto refrattario a dimostrazioni di affetto, ma quando richiesto, assumeva toni rigorsi al suo stile di vita, ebbe molte vote a punire il figlio Beppe, per comportamenti poco rispettosi verso il prossimo, è anche noto che tutte le volte che si recava a Ferrandina, in visita privata ai suoi familiari, obbligava il suo autista a svuotare il serbatoio dell’auto dal carburante ministriale, per poi riempirlo a proprie spese, in occasione del matrimonio della propria figlia Maria invece, nel 1936, vietò di ricevere doni per non creare scambi di favori e per scoraggiare la gente che avrebbe potuto sperare in trattamenti di favore da parte del Prefetto, non partecipava nemmeno a manifestazioni ufficiali, o meglio cercava di ridurle al minimo indispensabile per non dare troppo adito a pettegolezzi. Purtroppo anche per il Prefetto Pirretti arrivarono tempi duri, di scontro, soprattutto quando la politica cominciò a prendere potere nelle istituzioni governative, ed essendo Lui, uomo di Stato e solo per lo Stato, non accettò mai l’attività politica di accordi interpersonali, di favoritismi e preferenze di partito, e quando Mussolini venne in visita a Matera, durante una discussione con il Prefetto Pirretti, ebbe a dire che la popolazione doveva essere informata e preparata alla prossima guerra, il Prefetto dimostrando un parere diverso da quello del Duce, per la sua sincerità e lealtà, si guadagnò molti complimenti per il suo operato nella Città ed in tutta la provincia, ma anche di intralcio per i futuri programmi fascisti, e quindi esentato dall’incarico per mitivi di servizio dalle alte sfere Romane, e avendo anche superato il trentacinquesimo anno di servizio, fu collocato a riposo, dopo aver ricevuto onorificenze di Cavaliere di Gran Croce d’Italia, Commendatore dell’Ordine Mauriziano, Commendatore dell’Ordine Equestre di Sant’Agata e dopo un lungo e costante impegno al servizio dello Stato, ma nonostante tutto ciò, pur essendo stato messo a riposo, accettò l’incarico di Commissario Straordinario degli Ospedali Riuniti di Trieste, dove ben presto i figli vollero allontanarlo per il pericolo di cattura da parte di fascisti Tedeschi e per paura di essere arrestato e condotto nelle Foibe, portandolo con loro a San Giorgio a Cremano, dove potè continuare la sua vita da pensionato tranquillo ma sempre tenace e per niente scalfito da anni di feroce guerra. Il suo ultimo periodo di vita, Stefano Pirretti, lo dedicò completamente alla famiglia, i figli ormai dislocati in tutto il territorio Nazionale lo impegnavano in gran parte, i suoi ricordi fatti di successi, riconoscimenti ed onorificienze lo accompagnarono fino alla fine dei suoi giorni, ed il 22 Novembre 1965 ebbe il suo epilogo a San Giorgio a Cremano (Napoli) dove con cristiana compostezza, si consegnò all’eternità.  
                                                       

lunedì 3 giugno 2019

Altro articolo sul quotidiano Le Cronache Lucane




Ancora in prima pagina oggi...


La Prima pagina


L'Articolo


FINE DEL BRIGANTAGGIO

Il 25 luglio 1865, l’esercito di Crocco venne sterminato, lungo l’Ofanto, dalle truppe del generale Pallavicini. Rimasto senza forze, Crocco cercò di scappare nello Stato Pontificio, memore del sostegno che il papa aveva dato, in chiave anti-piemontese, alla corona borbonica. Ma Crocco non era un politico molto furbo: i tempi erano cambiati;  il Governo lealista in esilio a Roma non gli aveva perdonato l’abbandono del tentativo di riconquistare la Basilicata; il Papa non voleva creare motivi di ulteriore frizione con i Savoia, ed era soprattutto preoccupato dall’estensione del brigantaggio nel suo stesso territorio, in particolare in Ciociaria. I soldati del Papa lo catturarono a Veroli. Durante la sua detenzione nello stato papale Crocco ebbe anche contatti con Francesco II, esortandolo ad intervenire in suo favore poiché aveva combattuto in suo nome, ma il sovrano, secondo le dichiarazioni del brigante, non volle  intromettersi per non compromettersi con le potenze straniere. Dopo vari passaggi da un carcere all’altro, Crocco fu infine rinchiuso a Potenza. Nel 1873 venne condannato a morte, ma la sentenza venne immediatamente commutata, con decreto regio, in lavori forzati a vita, forse, come sostiene Del Zio, per pressioni politiche francesi. Morì nel carcere di Portoferraio, dopo aver più volte ritrattato il suo passato, arrivando ad elogiare Re Vittorio Emanuele II, e chiesto una grazia che non arrivò mai, nel 1905, all’età di 75 anni. Dopo l’arresto di Crocco, rimasero soltanto alcuni focolai di brigantaggio nel materano, costituiti da bande che non facevano parte dell’esercito di Crocco. La banda di Rocco Chirichigno, detto “Coppolone”, fu sconfitta nel febbraio 1865; l’ultima banda operante in Basilicata, quella capeggiata da Eustachio Chita, detto “Chitaridd’”, resisté fino al 1896, in condizioni di estremo isolamento nella zona circostante le gravine di Matera. La repressione militare sabauda fu selvaggia. Ecco alcuni degli episodi più brutali: A Trivigno, una pattuglia dell'esercito italiano fece un rastrellamento, fucilò alcuni prigionieri ed emanò un bando che prevedeva il perdono a chi si fosse costituito alle autorità. 28 ricercati si presentarono e, nonostante la promessa, furono fucilati senza processo. A Ruvo del Monte, dopo l'assedio di Crocco in cui vennero uccise 17 persone tra possidenti e liberali, un reparto di 1500 soldati ordina la perlustrazione e la fucilazione di un numero imprecisato di ruvesi. Dopo lo sterminio, il comandante Guardi ordinò ai notabili del posto di provvedere ai bisogni della truppa e, davanti al loro rifiuto, comandò il loro arresto con l'accusa di attentato allo stato e manutengolismo. A Lavello, 20 briganti furono fucilati da un contingente di ussari. Altri eccidi si registrarono a Venosa e Barile. Con la legge Pica, in meno di sei mesi, in Basilicata furono incarcerate per sospetto di aderenza ai briganti 2.400 persone; di questi, 525 persone, tra cui 140 donne, finirono al confino. Non vi è una stima del numero di morti, di villaggi e case distrutte, di persone recluse a vita o inviate al confino nella sola Basilicata. Ma certamente furono numeri da guerra civile. Dopo questa sconfitta, inizierà il crescente distacco economico del Mezzogiorno dal Centro Nord, l’emigrazione, il soggiogamento delle classi popolari meridionali. Nascerà la questione meridionale.  


Omicidio di Ninco Nanco

Le taglie per la cattura

Il Brigante Materano
Eustachio Chita detto "Chitaridd"