Oggi addirittura in prima pagina
La Prima pagina |
L'articolo |
CHIESA MADRE
SANTA MARIA DELLA CROCE
Ferrandina
Parte III
MADONNA COL BAMBINO
Montata su un monumentale sedile
in legno dorato con un baldacchino sorretto da due angeli, frutto di una
sistemazione tardo-settecentesca, la Madonna col Bambino, venerata col nome di
Madonna della Croce, è attualmente collocata nel transetto sinistro della
Chiesa. Dal Ragguaglio del 1756 si apprende che la statua dorata era situata, “
in un nicchio di fabbrica con stucco nel fondo di detto coro, scorniciato (a
lacunari) detto coro ed abbellito di più statuette, e di legno, e di stucco
poste in oro…”. Il Caputi riferisce che la scultura “fu ritoccata con
profusione di oro nel 1858 per cura dell’egragio canonico D. Francesco de
Gemmis”.
L’intervento, che probabilmente
dovette comprendere anche la revisione della cromia degli incarnati, comportò
quindi il rifacimento della doratura, per il quale la statua ha assunto un
aspetto scintillante, che non impedisce, tuttavia, di valutare quest’opera,
sinora passata inosservata agli studi. La scultura è datata sulla base 1530 e,
probabilmente, venne realizzata in occasione di un voto, fatto dai
rappresentanti di Ferrandina, al “Prezioso Legno di Santa Croce”, in seguito
alla pestilenza che colpì la Città nel 1521. La Madonna, seduta con la mano
sinistra protesa in avanti per mostrare la Croce, sostiene con la destra il
Bambino benedicente, che reca nella sinistra un pomo. L’ampio mantello, calato
sulla fronte della Vergine a nascondere la capigliatura ( le due bande brune di
capelli dipinte che sporgono dal copricapo sono visibilmente un’aggiunta),
ricade sulle sue braccia, descrivendo innaturalisticamente due anse, tra le
quali si accampa il putto, saldamente piantato sulla gamba destra della madre. Il
modulo compositivo denota la provenienza dell’opera dall’ambito napoletano,
benché l’autore si dimostri legato a soluzioni alquanto attardate, certamente
precedenti agli esiti espressivi più alti della plastica napoletana di quel
momento, rappresentati dal lirismo pacato del Siloè, dal grafismo nervoso del
Santacroce, dal manierismo struggente e aggressivo dell’Ordonez e dal
classicismo inquieto di Giovanni da Nola. L’opera in esame, uscita dalla
bottega di un madonnaro napoletano, si pone nella scia delle sculture lignee
giunte nella regione nei primi decenni del cinquecento, alcune delle quali
riconosciute dalla critica autografe o della bottega di Giovanni da Nola (
Tito, chiesa di S. Antonio, Madonna con Bambino, Melfi, Castello, S.
Sebastiano; San Mauro Forte, chiesa del Convento, Madonna col Bambino), e trova
un precedente di altissima qualità nella Madonna col Bambino della chiesa del
Carmine a Marsico Nuovo, da poco restaurata, che, nel solenne schema
compositivo e nell’ovale di perfetta astrazione geometrica della Madonna, si
ricollega al clima della plastica napoletana della fine del Quattrocento,
animato dalle esperienze dell’ultima attività del Laurana.
ANGELI REGGICANDELABRO
Ignorate dalla storiografia
locale, le due statuette che qui si presentano costituiscono, anche rispetto
agli altri esemplari conservati nella regione, una pregevole testimonianza di
scultura lignea di importazione napoletana degli inizi del XVII secolo. Lo
rivela l’impianto saldo ed equilibrato delle figure nella posa ferma del gesto,
lo sviluppo del panneggio che aderisce al corpo lasciando scoperta la gamba che
incede, ricadendo in pieghe morbidamente abbozzate, i lineamenti luminosi del
volto incorniciato da capelli a ciocche ondulate, la policromia delle vesti e
delle ali dal piumaggio fittamente lavorato. Una sintassi tardo rinascimentale
che sopravvive nel Seicento nell’attività di botteghe di tagliatori operanti
nella capitale, impegnati a far fronte alle richieste del mercato
dell’entroterra. I loro nomi, sovente adombrati, raramente affiorano dai dati
d’archivio, che, riguardando talvolta, opere ormai disperse, non consentono
l’identificazione e la valutazione dei caratteri stilistici e degli ornamenti
culturali dell’artefice cui si riferiscono. E’ il caso, ad esempio, del maestro
intagliatore Giovanni Antonio Amatucci, citato in un atto di pagamento del
1611, per l’esecuzione di due angeli per il Monastero di S. Francesco di
Miglionico che, nella dettagliata descrizione offertane dal documento, rivelano
una tipologia del tutto affine ai due esemplari di Ferrandina. E’ probabile che
le due sculture facessero parte dell’apparato decorativo della Cinquecentesca
Madonna della Croce, attestato dal Ragguaglio del 1756.
TEMPLI HUJUS CANTOR THOMAS
CARELLA DECANUS ALTARE HOC FECIT VIRGINIS AERE SUO – AD 1777
L’Opera reca la data di
costruzione sulla parte frontale del paliotto. Dalle storie locali apprendiamo
che negli ultimi decenni del Settecento la Chiesa Madre subì una serie di
interventi, intesi a completare e migliorare quanto era stato realizzato in
precedenza. Il Centola ad esempio, c’informa dei lavori di demolizione
dell’antica crociera e di rifacimento della cupola avvenuti nel 1775. Dalle
ricerche archivistiche finora esperite, non sono emersi dati documentari
sull’altare, ma risulta interessante al riguardo la relazione Ottocentesca
sulla Cattedrale, redatta dall’Arciprete Ruggero Lisanti nel 1872, essa
contiene preziose notizie sui rifacimenti subiti dalla fabbrica nella seconda
metà del 700. E’ probabile che nel clima di tali iniziative sia maturata l’idea
di acquistare un nuovo altare maggiore, collocato in opera, come ricorda la
data, nel 1777. L’altare realizzato in forme imponenti rivela un magnifico
gioco di marmi policromi variegati di rosso, giallo, verde, nero, in buon
contrasto con il bianco dei marmi scolpiti. Si erge su tre scalini marmorei, ed
è formato da un paliotto di marmo ornato al centro da un ovale simile ad un
araldo decorato e raffigurante l’immagine della Madonna della Croce col
Bambino, titolare della Chiesa. Ai capialtari, simmetricamente disposti, due
Angeli in marmo bianco sostengono due cornucopie che fungono da porta
candelabri. Un rapido confronto
stilistico con gli Angeli realizzati per l’altare maggiore della Chiesa di S.
Domenico nel 1775 permette di cogliere l’impronta inconfondibile del
Sebastiano, marmoraro napoletano, attivo in provincia, negli anni 70. Uguale
l’impostazione delle figure sedute ai capialtare, uguale il modo di trattare il
panneggio morbido e armonioso intorno ai corpi, il modo di creare l’occhiello
nei risvolti delle vesti, identici i dettagli iconografici.
L’altare maggiore della
Cattedrale con la sua imponenza e la compiutezza esecutiva va ad accrescere
nella nostra Regione il numero di quei prodotti artistici che, importati
direttamente dalla capitale, centro del potere politico ed economico, esprimono
il gusto ed il prestigio della committenza locale. Sotto l’aspetto stilistico e
compositivo esso trova soluzioni assai vicine negli esemplari che ancora si
conservano nella Chiesa Madre di Matera, di Montescaglioso, di Tricarico, di
Pomarico, di Maratea, tutti collocabili nella seconda metà del Settecento.
Nessun commento:
Posta un commento