I Sacri Tesori di Ferrandina
Lunedì Santo
Santa Maria della Croce
L’intervento, che probabilmente dovette
comprendere anche la revisione della cromia degli incarnati, comportò quindi il
rifacimento della doratura, per il quale la statua ha assunto un aspetto
scintillante, che non impedisce, tuttavia, di valutare quest’opera, sinora
passata inosservata agli studi. La scultura è datata sulla base 1530 e,
probabilmente, venne realizzata in occasione di un voto, fatto dai
rappresentanti di Ferrandina, al “Prezioso Legno di Santa Croce”, in seguito
alla pestilenza che colpì la Città nel 1521. La Madonna, seduta con la mano
sinistra protesa in avanti per mostrare la Croce, sostiene con la destra il
Bambino benedicente, che reca nella sinistra un pomo. L’ampio mantello, calato
sulla fronte della Vergine a nascondere la capigliatura ( le due bande brune di
capelli dipinte che sporgono dal copricapo sono visibilmente un’aggiunta),
ricade sulle sue braccia, descrivendo innaturalisticamente due anse, tra le
quali si accampa il putto, saldamente piantato sulla gamba destra della madre.
Il modulo compositivo denota la provenienza dell’opera dall’ambito napoletano,
benché l’autore si dimostri legato a soluzioni alquanto attardate, certamente
precedenti agli esiti espressivi più alti della plastica napoletana di quel
momento, rappresentati dal lirismo pacato del Siloè, dal grafismo nervoso del
Santacroce, dal manierismo struggente e aggressivo dell’Ordonez e dal
classicismo inquieto di Giovanni da Nola. L’opera in esame, uscita dalla
bottega di un madonnaro napoletano, si pone nella scia delle sculture lignee
giunte nella regione nei primi decenni del cinquecento, alcune delle quali riconosciute
dalla critica autografe o della bottega di Giovanni da Nola ( Tito, chiesa di
S. Antonio, Madonna con Bambino, Melfi, Castello, S. Sebastiano; San Mauro
Forte, chiesa del Convento, Madonna col Bambino), e trova un precedente di
altissima qualità nella Madonna col Bambino della chiesa del Carmine a Marsico
Nuovo, da poco restaurata, che, nel solenne schema compositivo e nell’ovale di
perfetta astrazione geometrica della Madonna, si ricollega al clima della
plastica napoletana della fine del Quattrocento, animato dalle esperienze
dell’ultima attività del Laurana.
Martedì Santo
Croce Astile
La croce astile poggia su un nodo
ellissoidale con due ordini di moduli decorativi: una serie di fogliami
d’acanto con lobo apicale e protomi alate alterne a cartelle lobate con girali
appiattiti. I bracci lineari della croce sono profilati da sagomature tornite
con baccelli tondi alterni agli ovali, resi contrastanti dal bulino.
All’incrocio dei bracci, quattro fasci composti di raggi a ventaglio danno vita
alla raggiera quadrata. Il terminale inferiore ha due carnose e morbide foglie
d’acanto, a sbalzo vivo, con palmette sottostanti, mentre i tre bombati
terminali apicali sono composti da coppie di girali affrontati, contenenti una
paffuta testina alata e pomello finale a doppio ordine di fogliami. Sulla Croce
è collocato il teschio d’Adamo, il Cristo patiens con perizoma annodato e testa
reclinata da un lato, un rosone stilizzato all’incrocio dei bracci e un
cartiglio ovale con la scritta INRI, un fogliame d’acanto stereotipato, tra
nervature tornite su fondo a bulino riccio, è presente sui terminali posteriori
della croce astile insieme ad un medaglione fiorato posto all’incrocio,
visibile anche nella parte anteriore. Si legge sul recto: FILOMENA ABATANGELO
VEDOVA MASTRO-MATTEI e sul verso la data 1904; deducendo così che la croce fu
donata nell’anno 1904 dalla fedele alla Chiesa Matrice di Ferrandina, dove
tuttora si custodisce. L’arredo reca sull’orlo ridotto del nodo e sui quattro
fasci della raggiera il bollo dell’argento in uso dopo l’Unità d’Italia e
uniformato a tutta la nazione, e la sigla M800, bollo di datazione,
accompagnata dal punzone CATELLO. La croce astile è opera dell’operoso e
geniale argentiere partenopeo Vincenzo Catello che, nel 1878, rilevò il
laboratorio di Gennaro Pane, attivo nella seconda metà dell’Ottocento. Della
maestria argentiera dell’inesauribile vena creativa dell’argentiere è
testimonianza in una doppia serie di due corone d’argento, traforate a racemi,
nella chiesa matrice della Trinità di Tramutola, una per la statua della
Madonna dei Miracoli e l’altra per quella della Madonna del Rosario. Sempre
opera del Catello è la splendida portella del Tabernacolo, sull’altare maggiore
della stessa chiesa, rappresentante, a rigore di scultura, la Cena di Emmaus,
raramente raffigurata. Un evidente eclettismo traspare, nella ripresa di ornati
d’altre epoche, rivisitati con diversa ispirazione, di pathos espressivo. Nella
resa finale non esiste armonia tra le parti. I terminali, di più accurata
realizzazione, sono in netto divario con la resa a moduli standardizzati dei
bracci della croce. Il decoro a ovali e cerchi bulinati è ripresa tematica del
tardo Cinquecento. Il nodo di sostegno, che ha una dimensione ridotta, riflette
strutture lineari e non si abbandona più a sporgenti e fastosi protomi alate o
vegetali, ma è stretto e racchiuso in fregi ornati e raffinati. Il Cristo
patiens, fuso a tutto tondo, ha un modellato a stampaggio, al pari del
cartiglio apicale con la scritta INRI. Si delineano abbastanza chiaramente, nel
rigore delle modanature e nella contenutezza delle forme, i fattori tipici del
neoclassicismo, che comportano la drastica riduzione dell’ornato e l’abolizione
delle stravaganze e bizzarrie dell’epoca precedente.
Mercoledì Santo
IL CALICE
La base circolare del calice è segnata da
un doppio gradino, lobato con ovuli incorniciati e fregi foliati al centro, e
piatto con palmette d’acanto stilizzate. Il piede tornito e decorato alla
sommità da foglie incise con le punte rivolte verso il basso. Nodi a disco
fogliati e piatti di raccordo compongono il fusto, provvisto di nodo centrale a
“vasetto”, cinto in basso da fogliami d’acanto e baccelli incorniciati sulla
lobatura spiovente. Il sottocoppa d’argento sbalzato, rastremato alla sommità
da un composto cordone marezzato, e ripartito in sei campiture a bandinelle con
manipoli di spighe in quelle grandi e grappoli d’uva nelle piccole. Un profilo
a lunette e girali liberi corona il sottocoppa fornito di slabbrata coppa,
dorata interamente e lungo il bordo esterno. Sul rovescio della base è
collocato lo stemma gentilizio della famiglia Mazziotti con elmo apicale a
becco di passero e un serpente sovrastante che tiene nelle fauci una figurina
umana. Lo stemma è composto da un leone rampante su monte a tre cime, tenente
con le due branche una scimitarra. Tutt’intorno è la scritta a caratteri
capitali “ EX LEGATO V.I.D. D. BERARDINI MAZZIOCTE 1619 “, a ricordo del
donatore. L’oggetto è un prototipo della manifattura partenopea del
primo-barocco. I canoni stilistici del tardo Cinquecento ritornano infatti
nella base piatta e circolare con moduli fogliati, i quali nella ricercatezza
decorativa preludono allo spirito Seicentesco. Il fusto assume lentamente quel
profilo mosso e libero del barocco col nodo a vasetto sagomato, che esula dalle
rigide forme del Cinquecento. Notevole eleganza è conferita al calice dagli
emblemi eucaristici, sbalzati a forte aggetto, simboleggianti la primaria
finalità del calice, ma soprattutto dalle lunette libere e serpentine con palmetta
centrale.
Giovedì Santo
L'Ostensorio
La base a campana poggia su quattro
composti peducci sfogliati e ricurvi, interposti a valve di acanto. Quattro
nervature tornite scandiscono la base in altrettanti campi mistilinei dal fondo
squamato, dove al centro trova sito un fastigio d’acanto pronunciato e, nei
laterali, pendents vegetali articolati a protomi alate a tutto tondo.
Un’apicale trabeazione a bandinelle con ricci laterali conclude la base. Il
fusto è scomponibile in un tripudio di nuvole e tentine alate, contenenti una
sfera metallica dorata con stelle incise a banda trasversale d’argento con i
segni dello zodiaco, tra luna calante e sole raggiante. Una sinuosa coppia di
angeli muliebri, aperta in un vaporoso turbinio con vesti morbidamente
panneggiate a fiori incisi, rialzano, sorreggendo, un fiammante Cuore di Gesù
sanguinante, con corona di spine apicale. La teca circolare dal contorno
cremisi, per le pietre rosse incastonate, è profilata da un soffice movimento
di nuvoloni a bulino, sulle quali si stagliano sette testine alate. Una doppia
fila di raggi, alterni e discontinui, si proietta nello spazio per sbalordire e
affascinare l’occhio umano. Un frontone lobato reca alla sommità il serto di
spighe, dove sono sovrapposti non solo dei minuti decori fiorati, ma anche una croce
a pietre rosse. Il pregevole ostensorio, riporta una iscrizione a caratteri
maiuscoli, chiaramente leggibili:
A
DEVOZIONE DEL SIGNORE TESORIERE D. CARMINE MEGALE ANNO DOMINI 1779.
L’oggetto è citato nell’inventario del 3
Luglio 1872, eseguito durante S. Visita Pastorale di Mons. Pietro Giovine, come
“una mediocre sfera d’argento per esporre il SS. Alla venerazione dei fedeli”.
Arredo di squisita produzione Partenopea, riflette in pieno i canoni
settecenteschi per la linea interrotta, il serpentino profilo mistilineo e la
buona fattura generale. È espressione di un valido argentiere per il
descrittivo modellato tanto plastico e il carattere iconografico ben leggibile
nel fusto. Il carico decorativismo della parte inferiore dell’ostensorio è
sottolineato dal gioco policromo del metallo dorato in netto contrasto col
metallo lunare. La ricerca dell’esuberante trova il culmine nella raggiera, per
la presenza di un bordo cremisi circolare e di gettate di colore sui tralci
vegetali. Il modellato della base rispecchia esigenze stilistiche del
settecento per la dinamica naturalistica mentre le protomi alate sono un
retaggio Barocco. Il modulo compositivo dell’ostensorio d’argento, con la
“saggiatura” impressa e ripetuta varie volte, è abbastanza consueta. Gli angeli
dal passo lieve e ondeggiante aleggiano e vorticano intorno al Sacro Cuore,
rivelando un livello qualitativo eccellente, segno della maestria dell’ignoto
argentiere di scuola partenopea. Anche la sfera dorata, in metallo, ha tratti
incisivi e poco comuni per la graziosa ricerca iconografica dello zodiaco.
L’ostensorio risulta di interesse per la ricercatezza della composizione, per
la decorazione della base e per la ricca profilatura del finestrino. Realizzato
in ambito artistico già sensibile al gusto neoclassico, l’opera rivela di
essere ancora legata a schemi del passato.
Venerdì Santo
L'Antifonario
1)
Di maggiori dimensioni, inquadrate su fondo oro costituiscono un gruppo
omogeneo. Sono le più eleganti e raffinate per la cura descrittiva e cromatica
degli spazi interni in cui si svolgono e s’intrecciano elementi fitomorfi. I
colori usati sono il rosso, il rosa, l’azzurro, il verde, il viola, l’arancio,
in audaci e contrastanti accostamenti e tonalità armonizzanti con notevole
capacità tecnica e creativa, eseguite da una
medesima mano, non sempre
s’inseriscono perfettamente nei vuoti del testo, al quale talvolta si
sovrappongono o dal quale si distanziano, forse perché condotte non in stretta
concomitanza con l’amanuense. Queste preziose cifre, nelle quali la trama
grafica e i colori organicamente si fondono, sono opera di un miniatore non
solo abile nelle tecniche esecutive e conoscitore della miniatura tardo-gotica
meridionale, ma attento alla cultura figurativa meridionale, soprattutto
architettonica, che dal tardo-gotico al periodo rinascimentale introduce e
valorizza tutta una nuova tipologia decorativa, riscontrabile principalmente
nell’arte Aragonese, ricca e sontuosa. Di questo gusto decorativo è partecipe
questo miniatore quando non si limita alla ricerca del solo effetto cromatico,
ma riesce a dare agli elementi vegetali e alle stesse lettere un vigore
plastico quasi esuberante.
2)
Prive di fondo dorato, sono graficamente lineari ed essenziali
nell’ abbinamento di un colore azzurro, rosa, giallo) con l’oro;
3)
In un solo colore, sono inquadrate in un campo di colore contrastante
(giallo e verde, rosso e blu) talvolta sommariamente arabescato. Alcune
sbavature di colore, l’uso della tempera, una trascurata e sommaria tecnica di
esecuzione, oltre che un differente gusto decorativo fanno ipotizzare
l’intervento di un altro decoratore meno abile e meno colto del precedente.
Disposizione
fonica Organo a Canne
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Il
Produttore
Ogni organo Fratelli Ruffatti è unico. La
pianificazione tonale di ogni strumento prende in considerazione le idee e le
esigenze musicali del cliente, nonché lo spazio disponibile e l'ambiente
acustico. L'obiettivo primario del design estetico è fondersi con
l'architettura esistente. Sebbene la maggior parte degli strumenti Ruffatti
utilizzi la tradizionale azione meccanica, producono anche strumenti con azioni
elettropneumatiche e completamente elettriche. Mentre i Ruffatti continuano a
perfezionare i suoni dei principali e dei flauti italiani, hanno aggiunto una
vasta gamma di suoni di organi europei e americani precedentemente sconosciuti
in Italia, rendendo i loro strumenti internazionali. Dopo la fabbricazione e
prima della spedizione, ciascun organo viene completamente assemblato nella
sala di montaggio della fabbrica. Ogni parte dello strumento viene quindi
controllata per evitare qualsiasi lavoro strutturale da completare nel sito di
installazione.
La società è nota per gli strumenti di
alto profilo che ha installato negli anni, come l'organo nella Cattedrale di
cristallo , l'organo nel Santuario di Nostra Signora di Fatima a Fatima, in
Portogallo , e l'organo di 117 gradi progettato da Diane Bish per Coral Ridge
Presbyterian Church a Fort Lauderdale, in Florida.
Sabato Santo
AQUILA
BICIPITE
“ Sia per ragioni di natura biologica sia
per le loro caratteristiche intrinseche, i grandi rapaci predatori (gli
Acipitridae, come preferiscono definirli gli zoologi), sono predestinati a
rappresentare il mondo divino, in contrapposizione al mondo umano. Di
conseguenza, non stupisce affatto che l’aquila ed altri rapaci, siano ormai
diventati il simbolo per eccellenza del cielo e delle divinità. Si può,
pertanto, attribuire all’aquila una simbologia religiosa. Nel nostro caso,
tuttavia, siamo in presenza di un’aquila bicipite che già presso gli Ittiti era
simbolo di sovranità. Tale simbologia, unita a quella imperiale, figura nello stemma
del Sacro Romano Impero, in quello degli Imperatori Bizantini, degli Aragonesi,
dei Borboni. Osserva lo storico locale S. Centola a proposito dell’aquila
bicipite, “ emblema simboleggiante l’unione spirituale dè due imperi d’Oriente
e d’Occidente, uniti sotto lo scettro nel grande Costantino”. La tipologia
iconografica abbastanza rara se non unica, almeno in Basilicata, è la dose
maggiore di questa scultura. Colpisce subito la sua dichiarata “araldicità”
espressa con la scelta del soggetto contenitore di marca prevalentemente laica.
Se non si fosse conservata la portella ovale, che dichiara nell’intaglio le
forme dell’oggetto conservato, si sarebbe pensato sicuramente ad uno stemma
araldico che avesse perso le proprie insegne. E invece proprio la sua insegna,
l’effige del reliquiario del Legno Santo di Croce, ci indirizza verso la giusta
esegesi. Pur tuttavia, l’insieme mantiene, alla fine, la sensazione di una
valenza marcata. Il soggetto, riconducibile direttamente nell’ambito del
repertorio araldico alle più note raffigurazioni di stemmi regali ed imperiali
per la presenza di un corpo bicipite, ad un’attenta lettura, presenta delle
caratteristiche abbastanza interessanti dal punto di vista stilistico ed
iconografico. La raffigurazione dell’aquila s’ispira, specie nell’impostazione
della testa, della coda e degli artigli, ad esemplari molto più antichi, vicini
a quelli di alcune stoffe bizantine. Il rilievo centrale, poi, riproduce il
modello del reliquiario in argento e cristallo, come se, se ne fosse voluta la
continua ostensione per la venerazione dei fedeli. E tale convinzione è
suffragata dalla presenza, ai due lati, di due angeli genuflessi sul tipo
dell’adorazione del SS.mo Sacramento, di rigida osservanza controformata. La
reliquia fu probabilmente portata in occidente dalla terra Santa alla fine del
XIII secolo da Roberto Sanseverino: agli inizi del 400 fu commissionata dagli
stessi Sanseverino il reliquiario d’argento, come risulta dagli stemmi posti
sulla base della stauroteca. La custodia lignea fu probabilmente eseguita tra
il 1630 e il 1633, quando la cattedrale fu ricostruita e la stauroteca venne
dotata di una cornice raggiata (la custodia di cuoio del reliquiario porta la
data 1630). Non conosciamo il nome dell’autore, ma tanto il modellato dell’intaglio,
quanto il tipo di doratura, e, soprattutto, la raffigurazione centrale
farebbero pensare ad un rappresentante della folta schiera d’intagliatori che
nel XVII secolo operarono in Basilicata alle dipendenze dei vescovi e ordini
religiosi. Un accostamento stilistico e tipologico potrebbe istituirsi con le
due formelle superiori della porta lignea della chiesa di S. Giovanni Battista
ad Acquaformosa in Calabria.
Domenica di Pasqua
LA
STAUROTECA
La mistilinea base rettangolare con
quattro lobi angolari è contornata da una piatta tesa periferica, a punta sui
lati lunghi, e rialzata da un alto bordo tornito. Il modulo geometrico inciso
sul fondo a bulino profila la sagoma di base, fregi fogliati sui lobi di base
incorniciano le quattro formelle saldate a losanga. Tre di esse contengono uno
stemma nobiliare su un campo verde a fogliami ridotti. L’arma d’argento alla
fascia di rosso con bordatura di azzurro è lo stemma della famiglia
Sanseverino, conti di Tricarico. Un’iscrizione latina a caratteri gotici e
smalto blu champlevè profila il cono trapezoidale del piede decorato nelle
quattro specchiature da ramages su fondo bulinato. La scritta… “+ ECCE : LIGNUM : CRUCIS : VENITE : ADOREMUS
: ECCE : LIGNUM : CRU”, esortazione alla preghiera, ha perduto il suo effetto
cromatico per la scomparsa dello smalto colorato dagli alveoli della lamina. Il
fusto niellato, sottile e slanciato a sezione quadrata, ha campi di fondo
bulinati a racemi di acanto incisi e prende origine da un nodo geometrico a
smalto blu con tralci verdi e fiori gialli. Cinto da merlatura, il fusto si
presenta diviso in due segmenti e interrotto da un tornito nodo gonfio a sagoma
quadrata ribassata. La Stauroteca con
bracci tubolari in cristallo di rocca ha le legature terminali a fregi
geometrici, presenti anche sulla base. Il nodo centrale è ripartito in
triangoli d’acanto incisi a motivi fogliati su fondo a bulino. I quattro
terminali trilobati a punta presentano sul recto, tra racemi di acanto, la
vergine a sinistra, San Giovanni a destra e, in basso, la Maria Maddalena con
pisside; il terminale apicale e scandito da sinuosi tralci vegetali. I tre
terminali posteriori a bulino, sono simili a quelli apicali del recto, mentre
il frontale cimoso reca inciso L’Agnus Dei. La Croce è incorniciata da una
inponente raggiera in lamina d’argento, aggiunta successivamente e fissata con
viti. Essa è scandita dall’alternarsi di lingue di fuoco e di raggi puntiformi
con listellature esterne a zone tornite. Un bordo classico ad incisi ovuli
incorniciati è interrotto nei tre punti di flesso da gonfie volute. La
Stauroteca è citata nei documenti d’archivio soprattutto per la sua funzione
mistica e religiosa. Gli stemmi attesterebbero la donazione da parte dei
Sanseverino, Conti di Tricarico e Principi di Bisignano. Nella Santa Visita
Pastorale di Mons. Pietro Giovine, Arcivescovo di Acerenza e Matera, eseguita
il 27 Giugno 1872 (Archivio Capitolare Materano) si legge che la reliquia del
Santo Legno della Croce “racchiusa in una croce formata da tubi di cristallo
legati in argento a forma di sfera, con piede di ottone” è priva di autentica.
L’Arciprete Ruggero Lisanti in risposta afferma che “ l’autentica è fornita
dall’antichità delle medesime massimo per quanto riguarda la reliquia del Santo
Legno che esisteva nell’antico paese abbandonato e denominato “Uggiano”, da cui
venne qui religiosamente trasportata… trovasi descritti due miracoli. Accesosi
un incendio nella Chiesa ove veniva custodito il Santo Legno tutto venne
divorato dalle fiamme, ad eccezione del solo Legno ove veniva conservato. Più
eclatante il secondo. Movendo da Montepeloso i Saraceni assalirono il Castello
di Uggiano. Dopo parecchi giorni di assedio, gli assediati non traendo altro
scampo ricorsero al Sacro Legno della Croce onde essere liberati da sì
terribile nemico. Ebbe luogo una processione, ed al mostrarsi del Sacro Legno i
cavalli caddero ginocchioni. In vista di ciò i Saraceni tolsero l’assedio e
presero la fuga. Così la leggenda. Da ciò penso che sia derivata la grande
devozione dei Ferrandinesi verso questo prezioso evento della nostra
Redenzione. Infatti tutte le volte che si teme qualche turbine e tempesta che
potesse compromettere il raccolto, i devoti accorrono in chiesa, e ne domandano
l’esposizione, (da qui parte la mia richiesta) e tal fiata viene anche
processionalmente portato fuori di Chiesa. Quale autentica dunque migliore di
questa, oltre di quelle che le viene dall’antichità” La Stauroteca, provvista
del più antico bollo dell’Arte degli Orafi di Napoli rinvenuto in Basilicata
(NAPL in caratteri gotici maiuscoli con lettere legate tra di loro), è databile
alla metà del sec. XV, mentre la corona raggiata è un’aggiunta seicentesca per
la resa compatta della lamina argentea e per i decori d’ispirazione
tardo-cinquecentesca. Sul rovescio della base è ripetuta varie volte la
“saggiatura” a tratto zigrinato, deciso e prolungato, al fine di verificare la
quantità d’argento esistente. Il meraviglioso arredo è la fusione di due espressioni
d’arte, distinte per stile e per epoca: infatti alla raggiera di fattura più
rozza collocata per assicurare la statistica dell’oggetto, fa riscontro
l’elegante composizione a giochi d’effetto policromo. Armoniosa nei colori
dello smalto e minuziosamente curata nel gioco
decorativo a ramages, che ritorna in riquadri ridotti, la Stauroteca trova la
sua finezza d’esecuzione nei terminali di gusto gotico con iconografie
miniaturistiche e compatte, emergenti dalle capiture listellate. L’influsso
gotico è presente nelle smaltate formelle geometriche di base, nei caratteri
dell’iscrizione, nell’ uso diffuso dello smalto champlevè, abbinato al gusto
della doratura, e nei panneggi delle figurine del tratto statico di marca
ancora Bizantina. Il Reliquiario del Santo Legno della Croce è racchiuso in una
custodia di marocchino marrone, tempestata di minuti fiori stellari e dorati, a
base di sostegno quadrata, sagoma romboidale e chiusura laterale. Internamente
è rivestita in broccato rosa a motivi losangati bianchi e gialli. Sul retro vi
è al centro una croce lineare tra un Santo inginocchiato con aureola e corona
ai piedi e uno stemma da identificare con quello della famiglia Purpura.
Infatti oltre alla data 1630 e all’iscrizione “ IN HOC SIGNO VINCENS”,
collocati al di sotto della Croce, è inciso sulla base “MODUM R.V.I.D. THOMA
PURPURA ARCHIPRESBITERO” All’Arciprete Tommaso Purpura, che appare donatore
della custodia, si deve probabilmente anche l’aggiunta dell’argentea cornice
che risponde a esigenze di gusto Barocco. In tale occasione la Croce venne
manomessa. La Croce Latina infatti, rispetto all’uso cattolico appare montata
al rovescio e i terminali trilobati, alloggianti la Vergine, San Giovanni e la
Maria Maddalena risultano invertiti rispetto all’Agnus Dei posto nel verso. Il
fusto sfaccettato è stato privato forse nella stessa circostanza, del nodo di
raccordo. La Stauroteca ha perso così la sua ieratica staticità, suggerita
dalle forme rigorosamente geometriche, che si esplicano nella sagoma tubolare.
La carica di fascino, ottenuta tramite l’argentea ghiera dentellata, è
sottolineata dal cromatismo di base, un tempo più netto, che conferisce maggior
sontuosità e fasto all’arredo.
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