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I Sassi di Matera

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domenica 5 aprile 2020

I Sacri Tesori Ferrandinesi per la settimana Santa...


I Sacri Tesori di Ferrandina



Lunedì Santo

Santa Maria della Croce



Montata su un monumentale sedile in legno dorato con un baldacchino sorretto da due angeli, frutto di una sistemazione tardo-settecentesca, la Madonna col Bambino, venerata col nome di Madonna della Croce, è attualmente collocata nel transetto sinistro della Chiesa. Dal Ragguaglio del 1756 si apprende che la statua dorata era situata, “ in un nicchio di fabbrica con stucco nel fondo di detto coro, scorniciato (a lacunari) detto coro ed abbellito di più statuette, e di legno, e di stucco poste in oro…”. Il Caputi riferisce che la scultura “fu ritoccata con profusione di oro nel 1858 per cura dell’egragio canonico D. Francesco de Gemmis”.
L’intervento, che probabilmente dovette comprendere anche la revisione della cromia degli incarnati, comportò quindi il rifacimento della doratura, per il quale la statua ha assunto un aspetto scintillante, che non impedisce, tuttavia, di valutare quest’opera, sinora passata inosservata agli studi. La scultura è datata sulla base 1530 e, probabilmente, venne realizzata in occasione di un voto, fatto dai rappresentanti di Ferrandina, al “Prezioso Legno di Santa Croce”, in seguito alla pestilenza che colpì la Città nel 1521. La Madonna, seduta con la mano sinistra protesa in avanti per mostrare la Croce, sostiene con la destra il Bambino benedicente, che reca nella sinistra un pomo. L’ampio mantello, calato sulla fronte della Vergine a nascondere la capigliatura ( le due bande brune di capelli dipinte che sporgono dal copricapo sono visibilmente un’aggiunta), ricade sulle sue braccia, descrivendo innaturalisticamente due anse, tra le quali si accampa il putto, saldamente piantato sulla gamba destra della madre. Il modulo compositivo denota la provenienza dell’opera dall’ambito napoletano, benché l’autore si dimostri legato a soluzioni alquanto attardate, certamente precedenti agli esiti espressivi più alti della plastica napoletana di quel momento, rappresentati dal lirismo pacato del Siloè, dal grafismo nervoso del Santacroce, dal manierismo struggente e aggressivo dell’Ordonez e dal classicismo inquieto di Giovanni da Nola. L’opera in esame, uscita dalla bottega di un madonnaro napoletano, si pone nella scia delle sculture lignee giunte nella regione nei primi decenni del cinquecento, alcune delle quali riconosciute dalla critica autografe o della bottega di Giovanni da Nola ( Tito, chiesa di S. Antonio, Madonna con Bambino, Melfi, Castello, S. Sebastiano; San Mauro Forte, chiesa del Convento, Madonna col Bambino), e trova un precedente di altissima qualità nella Madonna col Bambino della chiesa del Carmine a Marsico Nuovo, da poco restaurata, che, nel solenne schema compositivo e nell’ovale di perfetta astrazione geometrica della Madonna, si ricollega al clima della plastica napoletana della fine del Quattrocento, animato dalle esperienze dell’ultima attività del Laurana.

Martedì Santo

Croce Astile




La croce astile poggia su un nodo ellissoidale con due ordini di moduli decorativi: una serie di fogliami d’acanto con lobo apicale e protomi alate alterne a cartelle lobate con girali appiattiti. I bracci lineari della croce sono profilati da sagomature tornite con baccelli tondi alterni agli ovali, resi contrastanti dal bulino. All’incrocio dei bracci, quattro fasci composti di raggi a ventaglio danno vita alla raggiera quadrata. Il terminale inferiore ha due carnose e morbide foglie d’acanto, a sbalzo vivo, con palmette sottostanti, mentre i tre bombati terminali apicali sono composti da coppie di girali affrontati, contenenti una paffuta testina alata e pomello finale a doppio ordine di fogliami. Sulla Croce è collocato il teschio d’Adamo, il Cristo patiens con perizoma annodato e testa reclinata da un lato, un rosone stilizzato all’incrocio dei bracci e un cartiglio ovale con la scritta INRI, un fogliame d’acanto stereotipato, tra nervature tornite su fondo a bulino riccio, è presente sui terminali posteriori della croce astile insieme ad un medaglione fiorato posto all’incrocio, visibile anche nella parte anteriore. Si legge sul recto: FILOMENA ABATANGELO VEDOVA MASTRO-MATTEI e sul verso la data 1904; deducendo così che la croce fu donata nell’anno 1904 dalla fedele alla Chiesa Matrice di Ferrandina, dove tuttora si custodisce. L’arredo reca sull’orlo ridotto del nodo e sui quattro fasci della raggiera il bollo dell’argento in uso dopo l’Unità d’Italia e uniformato a tutta la nazione, e la sigla M800, bollo di datazione, accompagnata dal punzone CATELLO. La croce astile è opera dell’operoso e geniale argentiere partenopeo Vincenzo Catello che, nel 1878, rilevò il laboratorio di Gennaro Pane, attivo nella seconda metà dell’Ottocento. Della maestria argentiera dell’inesauribile vena creativa dell’argentiere è testimonianza in una doppia serie di due corone d’argento, traforate a racemi, nella chiesa matrice della Trinità di Tramutola, una per la statua della Madonna dei Miracoli e l’altra per quella della Madonna del Rosario. Sempre opera del Catello è la splendida portella del Tabernacolo, sull’altare maggiore della stessa chiesa, rappresentante, a rigore di scultura, la Cena di Emmaus, raramente raffigurata. Un evidente eclettismo traspare, nella ripresa di ornati d’altre epoche, rivisitati con diversa ispirazione, di pathos espressivo. Nella resa finale non esiste armonia tra le parti. I terminali, di più accurata realizzazione, sono in netto divario con la resa a moduli standardizzati dei bracci della croce. Il decoro a ovali e cerchi bulinati è ripresa tematica del tardo Cinquecento. Il nodo di sostegno, che ha una dimensione ridotta, riflette strutture lineari e non si abbandona più a sporgenti e fastosi protomi alate o vegetali, ma è stretto e racchiuso in fregi ornati e raffinati. Il Cristo patiens, fuso a tutto tondo, ha un modellato a stampaggio, al pari del cartiglio apicale con la scritta INRI. Si delineano abbastanza chiaramente, nel rigore delle modanature e nella contenutezza delle forme, i fattori tipici del neoclassicismo, che comportano la drastica riduzione dell’ornato e l’abolizione delle stravaganze e bizzarrie dell’epoca precedente.     

Mercoledì Santo

IL CALICE



La base circolare del calice è segnata da un doppio gradino, lobato con ovuli incorniciati e fregi foliati al centro, e piatto con palmette d’acanto stilizzate. Il piede tornito e decorato alla sommità da foglie incise con le punte rivolte verso il basso. Nodi a disco fogliati e piatti di raccordo compongono il fusto, provvisto di nodo centrale a “vasetto”, cinto in basso da fogliami d’acanto e baccelli incorniciati sulla lobatura spiovente. Il sottocoppa d’argento sbalzato, rastremato alla sommità da un composto cordone marezzato, e ripartito in sei campiture a bandinelle con manipoli di spighe in quelle grandi e grappoli d’uva nelle piccole. Un profilo a lunette e girali liberi corona il sottocoppa fornito di slabbrata coppa, dorata interamente e lungo il bordo esterno. Sul rovescio della base è collocato lo stemma gentilizio della famiglia Mazziotti con elmo apicale a becco di passero e un serpente sovrastante che tiene nelle fauci una figurina umana. Lo stemma è composto da un leone rampante su monte a tre cime, tenente con le due branche una scimitarra. Tutt’intorno è la scritta a caratteri capitali “ EX LEGATO V.I.D. D. BERARDINI MAZZIOCTE 1619 “, a ricordo del donatore. L’oggetto è un prototipo della manifattura partenopea del primo-barocco. I canoni stilistici del tardo Cinquecento ritornano infatti nella base piatta e circolare con moduli fogliati, i quali nella ricercatezza decorativa preludono allo spirito Seicentesco. Il fusto assume lentamente quel profilo mosso e libero del barocco col nodo a vasetto sagomato, che esula dalle rigide forme del Cinquecento. Notevole eleganza è conferita al calice dagli emblemi eucaristici, sbalzati a forte aggetto, simboleggianti la primaria finalità del calice, ma soprattutto dalle lunette libere e serpentine con palmetta centrale.

Giovedì Santo

L'Ostensorio



La base a campana poggia su quattro composti peducci sfogliati e ricurvi, interposti a valve di acanto. Quattro nervature tornite scandiscono la base in altrettanti campi mistilinei dal fondo squamato, dove al centro trova sito un fastigio d’acanto pronunciato e, nei laterali, pendents vegetali articolati a protomi alate a tutto tondo. Un’apicale trabeazione a bandinelle con ricci laterali conclude la base. Il fusto è scomponibile in un tripudio di nuvole e tentine alate, contenenti una sfera metallica dorata con stelle incise a banda trasversale d’argento con i segni dello zodiaco, tra luna calante e sole raggiante. Una sinuosa coppia di angeli muliebri, aperta in un vaporoso turbinio con vesti morbidamente panneggiate a fiori incisi, rialzano, sorreggendo, un fiammante Cuore di Gesù sanguinante, con corona di spine apicale. La teca circolare dal contorno cremisi, per le pietre rosse incastonate, è profilata da un soffice movimento di nuvoloni a bulino, sulle quali si stagliano sette testine alate. Una doppia fila di raggi, alterni e discontinui, si proietta nello spazio per sbalordire e affascinare l’occhio umano. Un frontone lobato reca alla sommità il serto di spighe, dove sono sovrapposti non solo dei minuti decori fiorati, ma anche una croce a pietre rosse. Il pregevole ostensorio, riporta una iscrizione a caratteri maiuscoli, chiaramente leggibili:
A DEVOZIONE DEL SIGNORE TESORIERE D. CARMINE MEGALE ANNO DOMINI 1779.
L’oggetto è citato nell’inventario del 3 Luglio 1872, eseguito durante S. Visita Pastorale di Mons. Pietro Giovine, come “una mediocre sfera d’argento per esporre il SS. Alla venerazione dei fedeli”. Arredo di squisita produzione Partenopea, riflette in pieno i canoni settecenteschi per la linea interrotta, il serpentino profilo mistilineo e la buona fattura generale. È espressione di un valido argentiere per il descrittivo modellato tanto plastico e il carattere iconografico ben leggibile nel fusto. Il carico decorativismo della parte inferiore dell’ostensorio è sottolineato dal gioco policromo del metallo dorato in netto contrasto col metallo lunare. La ricerca dell’esuberante trova il culmine nella raggiera, per la presenza di un bordo cremisi circolare e di gettate di colore sui tralci vegetali. Il modellato della base rispecchia esigenze stilistiche del settecento per la dinamica naturalistica mentre le protomi alate sono un retaggio Barocco. Il modulo compositivo dell’ostensorio d’argento, con la “saggiatura” impressa e ripetuta varie volte, è abbastanza consueta. Gli angeli dal passo lieve e ondeggiante aleggiano e vorticano intorno al Sacro Cuore, rivelando un livello qualitativo eccellente, segno della maestria dell’ignoto argentiere di scuola partenopea. Anche la sfera dorata, in metallo, ha tratti incisivi e poco comuni per la graziosa ricerca iconografica dello zodiaco. L’ostensorio risulta di interesse per la ricercatezza della composizione, per la decorazione della base e per la ricca profilatura del finestrino. Realizzato in ambito artistico già sensibile al gusto neoclassico, l’opera rivela di essere ancora legata a schemi del passato.

Venerdì Santo

L'Antifonario




Membr. Latino, mm 543 x 375, sec. XV, cc. 184 con numerazione doppia: una coeva, in cifra romane e minio, segnata nel margine esterno del verso in ciascuna carta, l’altra posteriore e discontinua, in cifre arabe, nell’angolo in alto del recto; multiplo di una carta tra c. 5 e c. 6 e di un consistente numero di carte alla fine, come si rileva dalla progressione numerica a cifre romane interrotta tra questo e il successivo. È composto prevalentemente da fascicoli di 8 carte (quaternioni) con ricami in calce ad ognuno. Correzioni e annotazioni di epoche successive sparse nel testo. Scrittura Gotica in linea, inchiostro nero, titoli e didascalie rubricati, colonne e righe tracciate a secco, iniziali rosse e blu; notazione quadrata e romboidale su tetragrammi rossi (5 tetragrammi per pagina) corretta o integrata da mani posteriori. Con il manoscritto successivo forma un graduale temporale per totum annum e contiene le parti cantate delle Messe dalle domeniche di Avvento alla domenica delle Palme. Le pagine finali mancanti dovevano contenere le parti cantate delle Messe della Settimana Santa. Legatura non originale in assi e pelle marrone recentemente restaurata con cantonali e borchie di metallo; fogli di guardia cartacei. Stato di conservazione discreto del codice nel suo insieme, ma alcune pagine sono rozzamente restaurate, rifilate e rattoppate; la decorazione di alcune iniziali maggiori risulta irrimediabilmente perduta. La decorazione, - priva di elementi figurati – è costituita da iniziali tipologicamente divisibili in tre gruppi:
1)     Di maggiori dimensioni, inquadrate su fondo oro costituiscono un gruppo omogeneo. Sono le più eleganti e raffinate per la cura descrittiva e cromatica degli spazi interni in cui si svolgono e s’intrecciano elementi fitomorfi. I colori usati sono il rosso, il rosa, l’azzurro, il verde, il viola, l’arancio, in audaci e contrastanti accostamenti e tonalità armonizzanti con notevole capacità tecnica e creativa, eseguite da una medesima mano, non sempre s’inseriscono perfettamente nei vuoti del testo, al quale talvolta si sovrappongono o dal quale si distanziano, forse perché condotte non in stretta concomitanza con l’amanuense. Queste preziose cifre, nelle quali la trama grafica e i colori organicamente si fondono, sono opera di un miniatore non solo abile nelle tecniche esecutive e conoscitore della miniatura tardo-gotica meridionale, ma attento alla cultura figurativa meridionale, soprattutto architettonica, che dal tardo-gotico al periodo rinascimentale introduce e valorizza tutta una nuova tipologia decorativa, riscontrabile principalmente nell’arte Aragonese, ricca e sontuosa. Di questo gusto decorativo è partecipe questo miniatore quando non si limita alla ricerca del solo effetto cromatico, ma riesce a dare agli elementi vegetali e alle stesse lettere un vigore plastico quasi esuberante.
2)     Prive di fondo dorato, sono graficamente lineari ed essenziali nell’ abbinamento di un colore azzurro, rosa, giallo) con l’oro;
3)     In un solo colore, sono inquadrate in un campo di colore contrastante (giallo e verde, rosso e blu) talvolta sommariamente arabescato. Alcune sbavature di colore, l’uso della tempera, una trascurata e sommaria tecnica di esecuzione, oltre che un differente gusto decorativo fanno ipotizzare l’intervento di un altro decoratore meno abile e meno colto del precedente.
                                                                                                                   
Disposizione fonica Organo a Canne
I - Grand'Organo


Principale
8'
Ottava
4'
Decima quinta
2'
Ripieno 6 file
1.1/3'
Corno camoscio
8'
Voce umana
8'
Tromba
8'
II - Espressivo


Principale
8'
Principalino
4'
Ripieno 5 file
2'
Bordone
8'
Flauto
4'
Sesquialtera 2 file
2.2/3'
Ottavino
2'
Voce celeste 2 file
8'
Oboe
8'
Tremolo
Pedale


Subbasso
16'
Basso corale
8'
Bordone
8'
Ottava
4'
Tromba dal I
8'


Il Produttore
Famiglia Artigiana Fratelli Ruffatti ( Fratelli Ruffatti, Famiglia di artigiani ) è un produttore di organi a canne con sede a Padova, Italia . Nel 1940, Antonio Ruffatti e i suoi due fratelli fondarono la ditta Famiglia Artigiana Fratelli Ruffatti (Fratelli Ruffatti, Famiglia di artigiani) il nome completo e originale dell'azienda che rimane invariata. L'azienda ha prodotto oltre cinquecento strumenti di tutte le dimensioni, in Europa, Nord America, Africa, Asia e Australia. Il lignaggio e l'eredità di Fratelli Ruffatti continuano nel ventunesimo secolo con la seconda generazione di fratelli Ruffatti, Francesco Ruffatti e Piero Ruffatti, figli di Antonio, che entrarono a far parte dell'azienda come soci nel 1968. Dal ritiro del padre nel 1992, Francesco e Piero hanno condiviso la responsabilità di dirigere Fratelli Ruffatti.
Ogni organo Fratelli Ruffatti è unico. La pianificazione tonale di ogni strumento prende in considerazione le idee e le esigenze musicali del cliente, nonché lo spazio disponibile e l'ambiente acustico. L'obiettivo primario del design estetico è fondersi con l'architettura esistente. Sebbene la maggior parte degli strumenti Ruffatti utilizzi la tradizionale azione meccanica, producono anche strumenti con azioni elettropneumatiche e completamente elettriche. Mentre i Ruffatti continuano a perfezionare i suoni dei principali e dei flauti italiani, hanno aggiunto una vasta gamma di suoni di organi europei e americani precedentemente sconosciuti in Italia, rendendo i loro strumenti internazionali. Dopo la fabbricazione e prima della spedizione, ciascun organo viene completamente assemblato nella sala di montaggio della fabbrica. Ogni parte dello strumento viene quindi controllata per evitare qualsiasi lavoro strutturale da completare nel sito di installazione.
La società è nota per gli strumenti di alto profilo che ha installato negli anni, come l'organo nella Cattedrale di cristallo , l'organo nel Santuario di Nostra Signora di Fatima a Fatima, in Portogallo , e l'organo di 117 gradi progettato da Diane Bish per Coral Ridge Presbyterian Church a Fort Lauderdale, in Florida.

Sabato Santo

AQUILA BICIPITE





Non è facile intuire le ragioni per le quali, nella prima metà del secolo XVII, si pensò ad una scultura lignea raffigurante un’aquila bicipite, come custodia del prezioso reliquiario Quattrocentesco del Legno Santo di Croce. Fini ad allora il reliquiario o era stato conservato in qualche custodia di altare o era stato sempre esposto ai fedeli. Nella visita apostolica fatta dal vescovo Giustiniani a Ferrandina il 26 Novembre 1595, tra gli altri rilievi è detto, “nell’altare maggiore si facci la custodia per tenere il SS.mo Sacramento. In quell’altare ove oggi sta il SS.mo Sacramento si metteranno le reliquie, si farà un velo nuovo che sia bello e decente e se metterà al reliquiario dove sta il Legno di S.ta Croce”. Nel documento non viene fatto alcun cenno dell’aquila bicipite che troviamo circa il 26 Maggio 1726, quando il vescovo Positano visita, tra l’altro, “Altare della Croce con cancelli lignei, il fornice di tutto l’altare (l’alzata) con colonne, baldacchino con l’aquila bicipite nella quale è conservata la Croce”. Entro queste due date bisogna collocare la committenza e la realizzazione dell’aquila bicipite, che da un punto di vista stilistico, si può datare intorno alla prima metà del secolo XVII. E’ opportuno fare qualche cenno sulla simbologia di questo rapace, per un ipotetico tentativo di accostamento al Legno Santo della Croce. Il Neubecher dice:
“ Sia per ragioni di natura biologica sia per le loro caratteristiche intrinseche, i grandi rapaci predatori (gli Acipitridae, come preferiscono definirli gli zoologi), sono predestinati a rappresentare il mondo divino, in contrapposizione al mondo umano. Di conseguenza, non stupisce affatto che l’aquila ed altri rapaci, siano ormai diventati il simbolo per eccellenza del cielo e delle divinità. Si può, pertanto, attribuire all’aquila una simbologia religiosa. Nel nostro caso, tuttavia, siamo in presenza di un’aquila bicipite che già presso gli Ittiti era simbolo di sovranità. Tale simbologia, unita a quella imperiale, figura nello stemma del Sacro Romano Impero, in quello degli Imperatori Bizantini, degli Aragonesi, dei Borboni. Osserva lo storico locale S. Centola a proposito dell’aquila bicipite, “ emblema simboleggiante l’unione spirituale dè due imperi d’Oriente e d’Occidente, uniti sotto lo scettro nel grande Costantino”. La tipologia iconografica abbastanza rara se non unica, almeno in Basilicata, è la dose maggiore di questa scultura. Colpisce subito la sua dichiarata “araldicità” espressa con la scelta del soggetto contenitore di marca prevalentemente laica. Se non si fosse conservata la portella ovale, che dichiara nell’intaglio le forme dell’oggetto conservato, si sarebbe pensato sicuramente ad uno stemma araldico che avesse perso le proprie insegne. E invece proprio la sua insegna, l’effige del reliquiario del Legno Santo di Croce, ci indirizza verso la giusta esegesi. Pur tuttavia, l’insieme mantiene, alla fine, la sensazione di una valenza marcata. Il soggetto, riconducibile direttamente nell’ambito del repertorio araldico alle più note raffigurazioni di stemmi regali ed imperiali per la presenza di un corpo bicipite, ad un’attenta lettura, presenta delle caratteristiche abbastanza interessanti dal punto di vista stilistico ed iconografico. La raffigurazione dell’aquila s’ispira, specie nell’impostazione della testa, della coda e degli artigli, ad esemplari molto più antichi, vicini a quelli di alcune stoffe bizantine. Il rilievo centrale, poi, riproduce il modello del reliquiario in argento e cristallo, come se, se ne fosse voluta la continua ostensione per la venerazione dei fedeli. E tale convinzione è suffragata dalla presenza, ai due lati, di due angeli genuflessi sul tipo dell’adorazione del SS.mo Sacramento, di rigida osservanza controformata. La reliquia fu probabilmente portata in occidente dalla terra Santa alla fine del XIII secolo da Roberto Sanseverino: agli inizi del 400 fu commissionata dagli stessi Sanseverino il reliquiario d’argento, come risulta dagli stemmi posti sulla base della stauroteca. La custodia lignea fu probabilmente eseguita tra il 1630 e il 1633, quando la cattedrale fu ricostruita e la stauroteca venne dotata di una cornice raggiata (la custodia di cuoio del reliquiario porta la data 1630). Non conosciamo il nome dell’autore, ma tanto il modellato dell’intaglio, quanto il tipo di doratura, e, soprattutto, la raffigurazione centrale farebbero pensare ad un rappresentante della folta schiera d’intagliatori che nel XVII secolo operarono in Basilicata alle dipendenze dei vescovi e ordini religiosi. Un accostamento stilistico e tipologico potrebbe istituirsi con le due formelle superiori della porta lignea della chiesa di S. Giovanni Battista ad Acquaformosa in Calabria.

Domenica di Pasqua

LA STAUROTECA






La mistilinea base rettangolare con quattro lobi angolari è contornata da una piatta tesa periferica, a punta sui lati lunghi, e rialzata da un alto bordo tornito. Il modulo geometrico inciso sul fondo a bulino profila la sagoma di base, fregi fogliati sui lobi di base incorniciano le quattro formelle saldate a losanga. Tre di esse contengono uno stemma nobiliare su un campo verde a fogliami ridotti. L’arma d’argento alla fascia di rosso con bordatura di azzurro è lo stemma della famiglia Sanseverino, conti di Tricarico. Un’iscrizione latina a caratteri gotici e smalto blu champlevè profila il cono trapezoidale del piede decorato nelle quattro specchiature da ramages su fondo bulinato. La scritta…  “+ ECCE : LIGNUM : CRUCIS : VENITE : ADOREMUS : ECCE : LIGNUM : CRU”, esortazione alla preghiera, ha perduto il suo effetto cromatico per la scomparsa dello smalto colorato dagli alveoli della lamina. Il fusto niellato, sottile e slanciato a sezione quadrata, ha campi di fondo bulinati a racemi di acanto incisi e prende origine da un nodo geometrico a smalto blu con tralci verdi e fiori gialli. Cinto da merlatura, il fusto si presenta diviso in due segmenti e interrotto da un tornito nodo gonfio a sagoma quadrata ribassata.  La Stauroteca con bracci tubolari in cristallo di rocca ha le legature terminali a fregi geometrici, presenti anche sulla base. Il nodo centrale è ripartito in triangoli d’acanto incisi a motivi fogliati su fondo a bulino. I quattro terminali trilobati a punta presentano sul recto, tra racemi di acanto, la vergine a sinistra, San Giovanni a destra e, in basso, la Maria Maddalena con pisside; il terminale apicale e scandito da sinuosi tralci vegetali. I tre terminali posteriori a bulino, sono simili a quelli apicali del recto, mentre il frontale cimoso reca inciso L’Agnus Dei. La Croce è incorniciata da una inponente raggiera in lamina d’argento, aggiunta successivamente e fissata con viti. Essa è scandita dall’alternarsi di lingue di fuoco e di raggi puntiformi con listellature esterne a zone tornite. Un bordo classico ad incisi ovuli incorniciati è interrotto nei tre punti di flesso da gonfie volute. La Stauroteca è citata nei documenti d’archivio soprattutto per la sua funzione mistica e religiosa. Gli stemmi attesterebbero la donazione da parte dei Sanseverino, Conti di Tricarico e Principi di Bisignano. Nella Santa Visita Pastorale di Mons. Pietro Giovine, Arcivescovo di Acerenza e Matera, eseguita il 27 Giugno 1872 (Archivio Capitolare Materano) si legge che la reliquia del Santo Legno della Croce “racchiusa in una croce formata da tubi di cristallo legati in argento a forma di sfera, con piede di ottone” è priva di autentica. L’Arciprete Ruggero Lisanti in risposta afferma che “ l’autentica è fornita dall’antichità delle medesime massimo per quanto riguarda la reliquia del Santo Legno che esisteva nell’antico paese abbandonato e denominato “Uggiano”, da cui venne qui religiosamente trasportata… trovasi descritti due miracoli. Accesosi un incendio nella Chiesa ove veniva custodito il Santo Legno tutto venne divorato dalle fiamme, ad eccezione del solo Legno ove veniva conservato. Più eclatante il secondo. Movendo da Montepeloso i Saraceni assalirono il Castello di Uggiano. Dopo parecchi giorni di assedio, gli assediati non traendo altro scampo ricorsero al Sacro Legno della Croce onde essere liberati da sì terribile nemico. Ebbe luogo una processione, ed al mostrarsi del Sacro Legno i cavalli caddero ginocchioni. In vista di ciò i Saraceni tolsero l’assedio e presero la fuga. Così la leggenda. Da ciò penso che sia derivata la grande devozione dei Ferrandinesi verso questo prezioso evento della nostra Redenzione. Infatti tutte le volte che si teme qualche turbine e tempesta che potesse compromettere il raccolto, i devoti accorrono in chiesa, e ne domandano l’esposizione, (da qui parte la mia richiesta) e tal fiata viene anche processionalmente portato fuori di Chiesa. Quale autentica dunque migliore di questa, oltre di quelle che le viene dall’antichità” La Stauroteca, provvista del più antico bollo dell’Arte degli Orafi di Napoli rinvenuto in Basilicata (NAPL in caratteri gotici maiuscoli con lettere legate tra di loro), è databile alla metà del sec. XV, mentre la corona raggiata è un’aggiunta seicentesca per la resa compatta della lamina argentea e per i decori d’ispirazione tardo-cinquecentesca. Sul rovescio della base è ripetuta varie volte la “saggiatura” a tratto zigrinato, deciso e prolungato, al fine di verificare la quantità d’argento esistente. Il meraviglioso arredo è la fusione di due espressioni d’arte, distinte per stile e per epoca: infatti alla raggiera di fattura più rozza collocata per assicurare la statistica dell’oggetto, fa riscontro l’elegante composizione a giochi d’effetto policromo. Armoniosa nei colori dello smalto e minuziosamente curata nel gioco decorativo a ramages, che ritorna in riquadri ridotti, la Stauroteca trova la sua finezza d’esecuzione nei terminali di gusto gotico con iconografie miniaturistiche e compatte, emergenti dalle capiture listellate. L’influsso gotico è presente nelle smaltate formelle geometriche di base, nei caratteri dell’iscrizione, nell’ uso diffuso dello smalto champlevè, abbinato al gusto della doratura, e nei panneggi delle figurine del tratto statico di marca ancora Bizantina. Il Reliquiario del Santo Legno della Croce è racchiuso in una custodia di marocchino marrone, tempestata di minuti fiori stellari e dorati, a base di sostegno quadrata, sagoma romboidale e chiusura laterale. Internamente è rivestita in broccato rosa a motivi losangati bianchi e gialli. Sul retro vi è al centro una croce lineare tra un Santo inginocchiato con aureola e corona ai piedi e uno stemma da identificare con quello della famiglia Purpura. Infatti oltre alla data 1630 e all’iscrizione “ IN HOC SIGNO VINCENS”, collocati al di sotto della Croce, è inciso sulla base “MODUM R.V.I.D. THOMA PURPURA ARCHIPRESBITERO” All’Arciprete Tommaso Purpura, che appare donatore della custodia, si deve probabilmente anche l’aggiunta dell’argentea cornice che risponde a esigenze di gusto Barocco. In tale occasione la Croce venne manomessa. La Croce Latina infatti, rispetto all’uso cattolico appare montata al rovescio e i terminali trilobati, alloggianti la Vergine, San Giovanni e la Maria Maddalena risultano invertiti rispetto all’Agnus Dei posto nel verso. Il fusto sfaccettato è stato privato forse nella stessa circostanza, del nodo di raccordo. La Stauroteca ha perso così la sua ieratica staticità, suggerita dalle forme rigorosamente geometriche, che si esplicano nella sagoma tubolare. La carica di fascino, ottenuta tramite l’argentea ghiera dentellata, è sottolineata dal cromatismo di base, un tempo più netto, che conferisce maggior sontuosità e fasto all’arredo. 







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