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I Sassi di Matera

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domenica 12 luglio 2020

Eustachio da Matera a Venosa



Oggi il mio ennesimo articolo in prima pagina
Eustachio da Matera 




EUSTACHIO DA MATERA
(Matera, inizio XIII secolo – Napoli, dopo il 1270)
giurista e poeta italiano

Eustachio, natio di Matera, visse anche a Venosa, dove fu giurista di grande fama,
sul suo nome la tradizione non è concorde e presenta le varianti di Eustazio, Eustasio, Eustacchio, oltre quella più nota di Eustachio. Legato alla corte di Federico II, giudice come Riccardo, visse nel periodo di transizione seguito alla sconfitta imperiale e al successivo passaggio dalla dominazione sveva a quella angioina. La sua opera si lega a quel momento politico; egli registrò in essa il «lamento» per la penosa situazione dell’Italia. Il Planctus Italiae, di cui ci restano testimonianze frammentarie, è un poema, in latino, in cui sembrano comparire due esigenze: la storia contemporanea e la ricostruzione mitologica delle genealogie dei singoli luoghi. Come spesso accade con le personalità che si incontrano nella Basilicata, anche nel caso di Eustachio si tratta più che della vicenda di un singolo, della storia, lunga e ancora incompiuta, di un recupero. Lo stato frammentario dell’opera di Eustachio, di cui continuano ad affiorare versi, lascia solo intravedere un disegno complesso e originale, a stento disseppellito e decifrabile nelle sue linee guida. Il Planctus Italiae è una sorta di enciclopedia medievale sulle origini mitiche e l’attualità storica di molte, forse addirittura tutte, le città italiane, fotografate alla caduta dell’impero federiciano. L’attribuzione di quei frammenti, di cui il più lungo si riferisce proprio alla città di Potenza e proviene da una manoscritto del Convento di San Francesco, si basa su testimonianze incrociate di più autori medievali, che ricorsero al Planctus come fonte per le loro genealogie: innanzitutto Boccaccio, poi Dionigi da Borgo di San Sepolcro. Sulle prime ad Eustachio venivano attribuiti anche i versi del De balneis Puteolanis, che Erasmo Pércopo dimostrò invece essere più tardi. Le ricerche su Eustachio incuriosirono un acuto studioso russo di scuola positivista, quel benemerito movimento al quale dobbiamo molti ritrovamenti di opere di scrittori lucani (tra cui, il più noto rimane quello di Isabella di Morra). Aleksander Wesselofsky era uno studioso di Boccaccio e, nel corso delle ricerche sulla Genealogia deorum gentilium si imbatté nel luogo in cui «nescio quem Eustachium» (non so quale Eustachio) era la fonte di una leggenda sulle mitiche origini di Genova e Torino, raccontata all’autore del Decameron da Paolo da Perugia. Il Wesselofsky aveva anche esaminato l’elenco degli autori che Dionigi da Borgo di San Sepolcro indica come proprie fonti nel suo commento a Valerio Massimo, dove appunto ritrovava un «Eustachium Venusinum, qui sub nomine poetae introducitur et Plantus Italiae nominatur». Arrivato in Italia nell’ottobre  1896, Wesselofsky riuscì a ricostruire l’intera vicenda bibliografica, vedendo di persona almeno il manoscritto napoletano, già citato da Bartolomeo Capasso e fornendosi della pubblicazione di Ireneo Sanesi, che, sulle tracce di Emmanuele Viggiano, aveva edito, ritrascrivendolo dallo stesso manoscritto di Potenza, l’opuscolo Un frammento di poema storico del secolo XIII (Pistoia, 1896) in nozze Sanesi – Crocini. Ritornato a Pietroburgo, il Wesselofsky pubblicò il suo Evstachij iz’’ Matery (ili Venozy) i ego Planctus Italiae (1897), che dopo dieci anni, tradotto dal noto pubblicista e scrittore napoletano Federico Verdinois vede la luce a Melfi per le cure di monsignor Rocco Briscese. Già durante il viaggio italiano, lo studioso russo scriveva ad Alessandro D’Ancona: «A Napoli [...] feci nella Biblioteca e nella società storica alcuni studi, cui diedi forma di una nota e meglio di una inchiesta: a proposito di un tal Eustachio di Venosa (meglio che: Matera), autore del Planctus Italiae. Sarebbe egli tutt’uno coll’Eustachio di Paolo di Perugia, citato dal Boccaccio (nescio quem)?». Livio Petrucci ha recentemente dimostrato che il manoscritto napoletano, definito «commento virgiliano» dagli studiosi del tempo, nel quale sono peraltro contenuti alcuni versi del nostro Eustachio, è, invece, per la massima parte, una copia delle Genealogie boccacciane con alcune varianti. Viene di conseguenza allora la domanda: come mai Boccaccio, che conosceva Dionigi di San Sepolcro e se ne serviva abbondantemente, poi dubitava dell’identità di Eustachio, nel luogo citato? Forse si trattava di autori diversi o, comunque, lo stesso Boccaccio avanzava dei dubbi sull’attribuzione della mitica origine di Genova e Torino allo stesso autore del Planctus Italiae.
«WHO’S WHO?»
 Chi è allora Eustachio? Se si ritorna al manoscritto potentino, edito da Viggiano prima e da Sanesi poi, si ricostruisce una figura di poeta che può coincidere con quella cui la tradizione di Dionigi attribuiva il Planctus. Emmanuele Viggiano lesse i versi di Eustachio «in un antico libro conservato nell’Archivio de’ PP. Conventuali di S. Francesco», mentre Ireneo Sanesi, novant’anni più tardi, riuscì a ritrovare quel libro nel Seminario di Potenza e lo descrisse come un messale del XIII secolo in cui alla carta 48 erano stati ricopiati i trentaquattro versi riguardanti la cronaca della città di Potenza, verosimilmente estratti dal Planctus, del cui autore il copista si premurava di far conoscere alcune notizie, trascrivendo dei versi:
Nomen Matera genitrix Eustacius, omen
 Judicis, et Scribae Venusiaque dedit: 
Excidium Patriae velut alter flet Hyeremias
Mundi conflictus, Italiaeque malum:
Italiae fata queror Urbis, et Orbis onus
[Matera che mi ha generato mi diede il nome di Eustachio, Venosa il prestigio di giudice e scrivano: come un nuovo Geremia piango l’eccidio della patria, la guerra del mondo, male d’Italia: piango il destino delle città d’Italia, e la rovina del mondo].
 Trascrivo i versi dalla più corretta lezione di Viggiano, giacché la riproposizione del Sanesi, per quanto più nota in campo accademico, si presenta in qualche luogo dubbia: Sanesi trascrive infatti Venusiam anziché Venusiaque, per poi discutere sull’inesattezza di quell’accusativo quando grammaticalmente vi era necessità di un nominativo, oppure nei versi successivi copia coronica al posto del più esatto ed evidente chronica del Viggiano. Eustachio, allora, nato a Matera esercitava la professione di giudice a Venosa, qualche anno più tardi rispetto a Riccardo. Egli, probabilmente ghibellino, si trovò coinvolto nella guerra che Carlo I d’Angiò condusse nell’Italia meridionale contro le frange imperiali. La definitiva sconfitta di Manfredi determinò in Eustachio quel pianto per la patria, per l’Italia federiciana e per la definitiva sconfitta delle città legate alla casa sveva. Lo si evince dai frammenti del manoscritto napoletano che propongono versi dedicati a Napoli, Messina, Taranto, ma soprattutto nel più lungo frammento potentino, riconosciuto e accreditato come parte integrante dell’opera di Eustachio.
IL PLANCTUS ITALIAE: LA CRONACA DELLA DISTRUZIONE DI POTENZA
Attribuiti ad Eustachio già da Emmanuele Viggiano, i versi che proponiamo alla lettura presentano più livelli di interesse: essi riguardano la descrizione della città di Potenza dopo la battaglia di Tagliacozzo, che aveva distrutto le ultime speranze della parte federiciana, mentre iniziava la vendetta di Carlo I d’Angiò contro i feudatari ancora legati alla dinastia sveva. In questa congiuntura, il popolo potentino per ingraziarsi il nuovo sovrano, piombò a tradimento contro i nobili che ancora innalzavano il vessillo svevo. La vendetta dei d’Angiò fu però spietata e coinvolse l’intera cittadinanza: le mura di Potenza furono abbattute e ne seguì una sanguinosa guerra civile tra i simpatizzanti delle due avverse fazioni. Questi versi sono i più antichi, nella letteratura romanza, in cui si trovi riferimento a fatti storici ed è quantomeno singolare che riguardino una città rimasta a lungo periferica rispetto alle grande linee storiografiche. Non ultimo motivo d’interesse, è il contenuto privato, il riferimento ai singoli - cittadini e famiglie -, la descrizione della città, della popolazione, del sito di Potenza all’altezza della prima metà del XIII secolo. Un altro motivo d’interesse, e non secondario, è poi sotteso a tutto il Planctus Italiae: l’idea dell’Italia, come nazione da difendere, un’idea che nella nostra storia è molto più tarda, ma che dimostra ancora una volta, quanta parte ha avuto l’impero federiciano nella maturazione della coscienza italiana e come sia ancora da approfondire quell’umanesimo ante litteram di cui si parla a proposito della corte sveva. Nonostante sia una narrazione, Eustachio non usa l’esametro dell’epica, ma il distico elegiaco, che rende ancora più drammatico e movimentato il suo poema. Leggiamo dunque i versi della cronaca della distruzione di Potenza tratti dal Planctus Italiae di Eustachio da Matera:
 Allora il furore del popolo potentino travolse tutti
quelli che portavano i vessilli dell’aquila imperiale.
La città di Potenza fu generata dai boschi lucani,
e sostenuta dalla tua protezione, o San Gerardo.
Fornita di monti e di prati a perdita d’occhio
coltiva campi fecondi di greggi ed armenti.
Austera di stirpe lombarda e potente di coloni
rifulge più ricca dei suoi vicini.
Udite le furie minacciose di stragi del vincitore,
impazzì il popolo, in un turbine la turba si precipita.
Con questo furore vorrebbe placare l’ira del vincitore,
vendicarsi, fare strage di nobili.
E questo è nulla rispetto al dopo, quando giacque distrutte le sue mura,
in più punita per la sua empietà.
Gugliemo cade e la stirpe Grassinella
E alla caduta della loro casa segue molta rovina.
Viene preso quel Bartolomeo
Che chiama con molti alla rivolta,
Stretti vincoli stringono i nobili
E conducono tutti i prigionieri nella rocca di Acerenza.
Ma la sorte mutevole diede alterne vicende:
Infatti in compagnia di armati Riccardo di Santa Sofia,
Enrico di Castanea e la coorte venosina
Erano giunti, evento straordinario, ai nemici di Acerenza.
Vedono quindi venire i prigionieri.
All’inizio i capi, entrati in battaglia,
Decidono di subire il discrimine: uno fugge, un altro muore.
Un soldato con gli alleati rende libero Bartolomeo
E il fato offre un’attesa alla morte incombente.
Allora morì quel Pietro Sapienza di Basilicata,
Portando in campo l’iniquità della maggior parte della gente.
Viene tradito, e il patto della preziosa amicizia
Dall’oro sciolto. La fede diventa scelleratezza:
Oh quanto grande delitto è il funesto denaro!
 I biondi metalli sottomettono anche il cielo al loro prezzo.

Nell’anno milleduecentosettanta, Regnando il Franco, essendo la sede romana vacante, Alleviando le pene dell’esilio, Dettando questi mesti fatti per anno ad uno ad uno.





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